Gino è un ragazzone alto un metro e novanta, magro e dinoccolato. Da qualche anno porta i capelli molto lunghi e una barbetta abbastanza rada.
È ospite della struttura per disabili, di cui sono consulente psichiatra, da diversi anni. Di fatto è stato allontanato da casa e dal suo destino familiare da una sorella, dopo la morte di entrambi i genitori per un incidente stradale. Era poco più che un ragazzo. Non si può dire che il suo handicap mentale sia grave e particolarmente evidente.
Il punto è che non si applica a nessun compito, non risolve alcun problema che lo riguardi, legge a stento e malvolentieri. Con noi operatori è guardingo, se non apertamente ostile. Deve dimostrare a tutti che lui è forte e non si piega di fronte a nessuno.
La sua prepotenza la esercita soprattutto sugli altri ospiti. Vuole essere il capo.
Dà ordini, si mette alla testa di un piccolo gruppo che lo asseconda, bullizza ragazzi deboli o passivi.
Quando l’ho conosciuto, sono rimasto colpito dalle sue grandi mani, che appoggia, anche per una incerta e ambigua cordialità, sulle spalle o sul collo di chiunque gli capiti a tiro.
Attraverso quelle mani che ti stringono o ti danno un colpetto, senti la sua violenza privata, solo mascherata da convenevoli e affettuosità.
Il primo episodio che ha segnato una svolta nei nostri rapporti è accaduto un paio di anni fa.
Gino si trovava nella sala di ricreazione e prendeva in giro un altro ragazzo, il quale se ne stava passivo, stralunato, dolente, su una poltrona, con gli occhi bassi.
Nessuno degli operatori osava intromettersi, non tanto per paura, quanto perché “era affar loro”.
A differenza di altre volte, sono intervenuto e gli ho fatto notare, con tono deciso, che questo modo di fare non andava bene, che doveva smettere di essere prepotente con una persona indifesa, che lo doveva fare SUBITO.
Mentre agivo così perentoriamente, avvertivo che stavo sbagliando, che il mio modo di fare non era corretto né tecnicamente né professionalmente.
Ero troppo categorico, non gli lasciavo alcuna via d’uscita, e poi il mio invito pressante era pubblico, davanti a tutti.
Gino mi guarda in maniera ostile e avvicina la sua faccia a pochi centimetri dalla mia. Per lunghi secondi, o forse attimi, aspetto una sua reazione fisica, uno schiaffo, una spinta, che per fortuna non è arrivata. Il rischio era stato grande, la corda che avevo tirato così tanto poteva spezzarsi e portare a conseguenze pericolose.
Gino mi guardava, quasi stupito che qualcuno osasse contraddirlo. Dopo pochi secondi uscì con fare teatrale dalla sala e io, ormai quasi rassicurato, lo accompagnai fuori. Scaturì tra noi una conversazione importante, in cui gli feci notare che il personaggio che incarnava in pubblico forse
gli conferiva uno status che gli andava bene, ma gli impediva di far vedere le sue qualità e, nel contempo, di imparare nuove abilità.
Gino continuava a guardarmi. A mano a mano che anch’io mi allontanavo dallo stato d’animo reattivo e da combattimento, cominciavo a capire che forse avevo esercitato nei suoi confronti un
ruolo paterno, quello che impone limiti, che suggerisce responsabilità. Risultava evidente che Gino aveva bisogno di questo: non di persone spaventate o indifferenti che gli lasciavano fare tutto,
ma di una figura che, finalmente, entrasse in rapporto con lui, senza avere paura dello
spauracchio che incarnava, a estrema difesa delle sue fragilità.
I mesi successivi il rapporto con Gino migliorò molto.
Ebbi modo di cominciare a mettere in evidenza e valorizzare gli sforzi che lui faceva, nella lettura, nei giochi con gli altri ragazzi, nello sport. La seconda tappa del nostro rapporto fu quando decisi, insieme agli altri colleghi,
di affidargli l’assistenza di una ragazza fortemente handicappata, tanto che non parlava e non riusciva ad alimentarsi da sola.
Gino sorprese tutti, fu straordinario. Svolse il compito con grande dedizione e con risultati evidenti. La ragazzina, imboccata, si alimentava con regolarità e si muoveva meglio nelle varie attività comunitarie. Gino le era vicino, la conduceva per mano con fare da fratello maggiore.
I complimenti si sprecavano, e a quelli aggiunsi una piccola, simbolica paghetta, che mostrava la natura professionale del suo compito.
Malgrado questo cambiamento, le grandi mani di Gino incombevano su qualunque sventurato gli si avvicinasse troppo. Ti stringeva… eccessivamente.
E se ti lamentavi della stretta dolorosa, ti guardava preoccupato, deluso da se stesso, come se ti dicesse: “sono arrivato a questo punto, so toccare gli altri solo in questo modo… cerca di capirlo!”
E noi tutti lo capivamo. Da qualche mese Gino ha una nuova passione.
Ha capito, attraverso esperimenti fatti su altri ragazzi, che gli piace il massaggio, gli piace fare il
massaggiatore. Forse è stato influenzato dalla figura di un riabilitatore, alto e grosso pure lui, che aiuta gli handicappati fisici anche con i massaggi, oppure, come mi ha detto, dalle trasmissioni
sportive che guardava in televisione. Di fatto, ha cominciato a leggere un libro corposo che parla delle tecniche di massaggio.
La sua lettura è migliorata, si è fatta quasi fluida. Collabora con il riabilitatore e in qualche caso più semplice, sotto la sua guida, svolge un ruolo diretto. Quando ne parliamo, io cerco di mettere in evidenza il fatto che finalmente le sue grandi mani e la sua mente possono servire per fare del bene a qualcun altro.
Qualcosa di sé, che era ingombrante e al servizio della rabbia (le sue manone), si è
trasformato nello strumento più efficace, che madre natura gli ha regalato, per
prendersi cura del dolore.
Lui continua a guardarmi e non dice niente. Dovrei fare un corso vero e proprio per migliorare…mi aiuti?”, mi ha detto l’altro giorno. Abbiamo controllato se in zona ci fosse qualche scuola di massaggio che gli potesse andar bene.
Insomma, questo racconto di vita vera sembra avere un lieto fine, aprire nuove prospettive a una
mente ferita, indurita, pronta solo per la violenza. Martedì scorso ho chiesto a Gino se voleva
occuparsi di un assistente che dopo una partita di calcio aveva sofferto di contratture a una gamba.
Gino, come sempre, prima di rispondermi mi ha guardato a lungo. Poi, abbozzando un sorriso che gli avevo visto poche altre volte, ha preso il portafoglio dalla tasca e mi ha mostrato un foglio. Aveva annotato i suoi impegni della settimana: teatro, partita di bocce, riunioni di gruppo, massaggi prenotati da vari ospiti e operatori.
Il sorriso a questo punto è diventato una risata. Gino mi ha afferrato per le spalle e
ho sentito il suo bisogno di intensità e di condivisione intima, solo dopo ho percepito
che la stretta era leggermente più forte di quello che avrei gradito.
Eravamo diventati amici, anzi colleghi… anche lui aveva il suo posto nel mondo.
Ascolta il podcast dell’articolo:
Per altri articoli dell’autore leggi anche: Quando l’ego si mette al centro