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Il sogno di una ricercatrice

Intervista a Matilde Maria Coppi, ricercatrice oncologica italiana all’estero

Nel nostro Paese non si fa altro che lamentarsi delle scarse risorse dedicate alla ricerca, degli stipendi da fame dei ricercatori, della vita difficile, eccetera. 

Matilde, perché ha deciso di diventare una ricercatrice a tempo pieno?  

«Bella domanda. Fare la ricercatrice stimola e soddisfa (in parte) la mia curiosità.  Mi mette alla prova, mi porta a confrontarmi con persone provenienti da tutto il mondo che sono di gran lunga più acute e formate di me; sono sempre la più “ignorante in materia” quando ci sediamo attorno a un tavolo, ma questo non mi avvilisce, anzi, mi sprona a impegnarmi per essere all’altezza dei miei interlocutori e delle persone con cui lavoro.  

Così allargo i miei orizzonti, osservo da nuove prospettive e imparo nuovi modi di pensare.  

Lavorare è qualcosa che faremo per gran parte della nostra vita, tanto vale che ci appassioni e se ci aiuta nel processo di crescita personale…meglio!  

La questione dei pochi fondi a disposizione, degli stipendi da fame e della precarietà la trovo avvilente. È frustrante dover sottostare a contratti miseri, irrisori, di fronte all’alta preparazione che si richiede a un ricercatore.  

Non ho le competenze giuste per esprimermi in merito, ma finché non sarà chiaro a tutti che la ricerca – in ogni ambito, non solo quello medico – è la risorsa fondamentale che consente il progresso umano a 360°, andremo poco lontano». 

Quali i suoi modelli al femminile e non solo? 

«Potrei risponderle in maniera scontata, facendo name-dropping di scienziate famose o donne di successo, ma la verità è che prendo ispirazione ogni giorno dalle persone che conosco, incontro o vedo sui media. Prendo spunto qua e là e costruisco un modello fittizio nella mia mente, una persona ideale; poi cerco di assomigliarle». 

Quali difficoltà sta incontrando come ricercatrice?  

«Sto imparando a nuotare.  E per rimanere in metafora, i primi mesi sono stati un corso intensivo: o nuoti o affoghi.  

Affrontare il mio primo lavoro nella ricerca, in un nuovo laboratorio, all’estero, con nuovi colleghi e un’altra lingua nella quale dovermi esprimere non è stato facilissimo. Né a livello professionale né a livello umano.  

Ma d’altra parte questa sfida me la sono cercata, era esattamente quello che volevo fare.  

La parte più difficile è stata imparare a lavorare in un team, nessuno ti prepara a questo, mi spiego: interfacciarsi con le persone nel modo giusto, capire cosa gli altri membri del gruppo si aspettano da te, imparare a comunicare chiaramente ciò che per noi magari è scontato.  Per tutto il resto invece sono stata molto, molto fortunata». 

I luoghi comuni su accennati rispondono a verità anche parziale? 

«Purtroppo sì, non è una novità né un mistero.  Ne sento parlare sui media e ho avuto decine di testimonianze dirette da colleghi e non.  

La situazione in Italia non è buona, per usare un eufemismo, ma spesso anche all’estero non sono da meno. Un po’ dovunque, se non ci fermiamo solo alle cifre ma facciamo un bilancio tra salario e costo reale della vita, gli stipendi dei ricercatori non sono alti e permettono di vivere senza troppi sfarzi.

Si deve tener conto del fatto che con l’avanzare dell’età le esigenze cambiano e magari uno ha delle “ambizioni” che vanno oltre il fare la spesa, tipo essere economicamente indipendenti, comprare una macchina, una casa, fare una vacanza, metter su famiglia… cose così.  

Le ho definite “ambizioni” di proposito, con salari bassi e precarietà costante anche le cose normali diventano sogni nel cassetto». 

Nella sua Bio è evidenziato il settore della sua preparazione: vaccini contro il Cancro.  A che punto siamo?  

«Ci stiamo lavorando, con tanto impegno.  Il cancro è una malattia complessa, ogni tumore è diverso dall’altro e ha delle caratteristiche proprie, e questo sicuramente non ci aiuta.  

Però, negli ultimi anni la ricerca, sia sul cancro che sui vaccini, ha fatto passi da gigante.  Se prima guardavamo a un vaccino come un miraggio adesso possiamo considerarlo un obiettivo». 

Che ne dice dello studio divulgato sui nostri quotidiani nazionali sul ruolo del microbioma nel cancro al colon retto? 

«Ecco, l’articolo sul NEJM che propone ci offre un bel punto di vista sulla complessità dell’argomento.  Qui sono stati trattati 12 pazienti affetti da cancro al colon retto, i cui tumori hanno una determinata caratteristica genetica ovvero il mismatch repair–deficiency, che però non è comune a tutte le persone affette da cancro al colon retto.  

E gli autori stessi suggeriscono che il microbioma dei pazienti (la flora batterica intestinale, per semplificare) giochi un ruolo nella risposta alla terapia.  

Per rispondere alla sua domanda, penso che lo studio sempre più approfondito del cancro ci porterà verso una medicina personalizzata ed estremamente efficace». 

Matilde, qual è il suo sogno da ricercatrice più ricorrente?  

«Un sogno vero e proprio non ce l’ho ma spesso mi sono immaginata a presentare dati che avessero un impatto, che fossero una chiave di volta nella lotta al cancro. Non per essere ricordata come ricercatrice, ma per migliorare la vita delle persone». 

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