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Fine vita: morte e tecnica sanitaria

Intervista a Ines Testoni

Professoressa Testoni, il suo CV parla da sé. Nel pensare le mie domande mi sento in verità un po’ o addirittura molto banale, ci provo.

In queste settimane siamo stati riproiettati sui temi del fine vita. Persone che vorrebbero avvalersi della pronuncia della Corte costituzionale del novembre del 2019 su un orientamento favorevole al principio dell’autodeterminazione.

Una ‘pronuncia’ che, però, pare insabbiata dal dibattito parlamentare che rincorre sempre nuove e altre priorità.  

Ma che problema abbiamo con la morte? Perché ce ne abbuffiamo volentieri sullo schermo ma la releghiamo in un perimetro di sicurezza e ben nascosto nella vita reale? 

«Secondo la Terror Management Theory (TMT), il nostro comportamento quotidiano è costantemente influenzato dall’angoscia di morte. Poiché la consapevolezza di mortali ha un potere paralizzante, per difendersi dal rischio di trovarsi inerti dinanzi al pericolo o al bisogno, gli esseri umani reagiscono a tutto ciò che riguarda la morte con l’evitamento. Le difese psicologiche che ci permettono questo sono di tipo sia “prossimale” (consce, focalizzate sulla minaccia) sia “distali” (inconsce, simboliche)».  

Difese prossimali 

«Le prime agiscono in questo modo: quando si presenta un fenomeno che rende saliente la nostra condizione mortale mettiamo in campo una difesa prossimale che ci porta a dire che la scena alla quale stiamo assistendo non ci riguarda.

È la tipica situazione del “naufragio con spettatore”. Guardiamo tragedie o film horror – come già sapeva Aristotele – perché questo ridimensiona i problemi della vita quotidiana. Ci fa ricordare che cosa è davvero temibile e permettendoci di dire “Beh, grazie al cielo, queste non sono faccende di mia pertinenza, quando lo saranno si vedrà”».  

Difese distali 

Le difese distali invece sono più complesse. Concernono il modo in cui noi costruiamo la nostra tranquillità quotidiana, sentendoci “meritevoli di vita e di esistenza”. La cultura ha sostanzialmente costruito degli apparati simbolici che negano la morte. E promettono, secondo la TMT, due forme di immortalità: quella simbolica e quella letterale.

La prima ci permette di pensarci oltre la morte come qualcuno che verrà ricordato. Quindi, il riconoscimento degli altri ci porta a voler costruire relazioni in funzione di come possiamo essere percepiti da chi ci osserva. La seconda invece si riferisce all’apparato di spiegazioni e narrazioni che promettono che esisteremo ancora dopo la dipartita». 

Occidente e morte 

«L’Occidente ha sempre dato un’importanza radicale al tema della morte. Tutta la sua storia si è dipanata sulla base delle risposte che ha saputo dare alla domanda relativa al perché vivere sapendo di dover morire. Sostanzialmente, grazie alla spiegazione metafisica, che è rigorosamente razionale, a partire da Platone e Aristotele si comincia a spiegare in modo logico perché siamo “immortali”. Le religioni abramitiche hanno tesaurizzato questa forma di spiegazione per interpretare i testi sacri e dare loro un fondamento in grado di reggere alla confutazione.  

Ma a partire dal ‘900 il processo di estraniamento della morte dalla nostra quotidianità ha preso il sopravvento. Le consuetudini che dominavano gli scenari della vita di comunità stanno scomparendo. Insieme a loro anche i riti di passaggio che un tempo segnavano il cambiamento dell’individuo da una condizione ad un’altra nel ciclo della sua vita all’interno della comunità.

Prima del secolo scorso, anche la ritualità funebre assolveva a siffatto compito, definendo il passaggio dalla condizione della vita biologica all’esistenza ultraterrena. Oggi tutto questo sta diventando sempre più raro e, quando accade, o dimostra di aver perso pregnanza o assume forme bizzarre.

Se dunque fino a pochi decenni orsono, i riti consumati intorno all’ultimo passaggio hanno permeato gli scenari della vita intima e collettiva, insegnando alle persone i linguaggi della vicinanza e della solidarietà, al contrario, specialmente dopo la Seconda guerra mondiale, essi hanno subito una trasformazione repentina, affidano alle semantiche della tecnica medica i contenuti portatori di significato rispetto all’idea di corpo vivo versus quella di cadavere.  

Morte e tecnica sanitaria 

È stato così che le consuetudini grazie alle quali si sapeva come ci si doveva comportare per esprimere cordoglio e disponibilità al supporto sono progressivamente comparse. Hanno lasciato spazio a protocolli e piani di cura da condividere con gli apparati del sistema sanitario, al cui interno malattia e morte vengono custoditi e occultati alla vista di chi sta bene.

Ci troviamo infatti immersi in una società che ha interamente esternalizzato dalle persone e dalle relazioni familiari l’esperienza della malattia e della fragilità. Che ha affidato il momento del distacco al linguaggio della tecnica piuttosto che a quello degli affetti e della ricerca interiore.

L’allontanamento dall’esperienza di accompagnamento nelle proprie case di qualcuno che sta molto male e muore limita l’esperienza diretta di che cosa significhi morire realmente. E per l’altro lo stesso nascondimento attiva una forte ansia, alla quale reagiamo in forma inconsapevole. Questo è l’effetto delle nostre difese prossimali: rimuoviamo concretamente e velocemente ciò che ci ricorda la finitudine.  

Religioni 

Il vero problema consiste nel fatto che le religioni non ci convincono più, quindi le difese distali risultano debolissime. Il sopravvento del sapere scientifico che mette totalmente in questione qualsiasi fondamento metafisico ci affida totalmente alla contingenza.

È per questo che vediamo man mano tramontare tutte le ritualità di passaggio di cui abbiamo parlato più sopra. E viviamo costantemente immersi nel presente, incapaci di pianificare il futuro e di dargli una direzione». 

Morte di Dio 

Emanuele Severino spiega in modo radicale questo fenomeno. Quando discute intorno al pensiero contemporaneo, il filosofo fa riferimento alla “morte di Dio”, che, secondo lui, trova nel pensiero di Leopardi, Nietzsche e Gentile la propria cuspide. Quello che viene anche chiamato “pensiero del disincanto”, tra Ottocento e Novecento, ha decretato infatti che le religioni sono “miti” e non verità.

Con la morte di Dio, che non consiste semplicemente nella perdita della fede quanto piuttosto nella consapevolezza della necessità di ridefinire i costrutti in cui affondano le radici dell’atto di fede, le persone non sanno più come gestire il pensiero della morte da un punto di vista “distale”, ovvero facendo perno su simbolismi che permettono di pensarsi immortali.

Viviamo quindi in un’epoca che avendo estinto la capacità di dare un senso simbolico ultraterreno al morire ci porta a massimizzare le forme di difesa prossimale. Il corpo viene infatti costantemente celebrato e spettacolarizzato, per farci desiderare una vita con determinate caratteristiche estetiche. Nascondendo così nel qui ed ora l’evidenza del fatto che siamo comunque destinati a morire. Tanto il corpo splendido quando il corpo orrendo ci muovono al desiderio di perfezione che ci rassicura rispetto al fatto che possiamo procrastinare la morte giorno per giorno».  

In merito alla recente decisione di Elena Altamira, seguivo le riflessioni di Luigi Manconi tra le altre giornalista di Repubblica: “Qui siamo ancora prima di ogni questione di etica pubblica e di teologia morale. Siamo nello spazio indicibile della più nuda soggettività, dove l’individuo è solo con se stesso e non può essere altrimenti.

Non c’è, infatti, alcuna forma di affetto, coniugale o fraterno o amicale che sia, e alcuna forma di conforto, emotivo, intellettuale o religioso, che possano portare a condividere davvero quel dolore. Questo spazio, che può essere anche quello dell’angoscia più nera, precede ogni norma e ogni convenzione, ogni morale e ogni relazione, che non sia quella dell’individuo con se stesso e con la propria sofferenza.

È questo il fondamento costitutivo dell’autodeterminazione che, prima di essere un concetto giuridico o una opzione politico-culturale, è un tratto antropologico ineludibile. Il che non corrisponde, necessariamente, a uno stato di abbandono o di solitudine familiare o sociale.

In tutte le vicende diventate pubbliche, che hanno portato all’aiuto al suicidio medicalmente assistito, il paziente si trovava all’interno di un sistema assai fitto di relazioni, di scambi, di comunicazioni. E dentro “mondi vitali” che lo hanno assistito, sostenuto e consolato, per quanto la consolazione risulti possibile in situazioni che si sanno ultime.

Perché anche questo va detto: l’eutanasia non è “la dolce morte”, come ancora sciattamente si continua a scrivere. È, piuttosto, una scelta tragica che, in determinate circostanze, è inevitabile e profondamente umano assumere” (La Repubblica 4 agosto 2022, p. 27). Lei le segue? Cosa si sentirebbe di togliere o aggiungere? 

Solitudine 

«A causa del cambiamento che ho descritto sopra, che caratterizza l’Occidente specialmente a partire dalla seconda metà del secolo scorso, chi muore si trova spesso in solitudine. Spesso dipende da sempre più complessi dispositivi medici, all’interno di strutture sanitarie che sostituiscono le relazioni interumane con sostanze chimiche, dispositivi medici e apparecchiature elettroniche.

Tutto ciò comporta che, intorno al morire, si sviluppi un deserto meccanizzato. Deserto che isola i sofferenti in un mondo diverso da quello che i sani possono vedere e di cui godono. Tale condizione è caratteristica di tutte quelle malattie sempre più numerose che prevedono un esito infausto a decorso prolungato.

Se prima del Novecento esse causavano una morte rapida, come per esempio il cancro o le malattie neurodegenerative, oppure anche gli esiti di traumi gravi, oggi grazie alla medicina queste condizioni vengono cronicizzate e la loro terminalità è sempre più estesa.  

Queste persone vivono una vita totalmente dipendente dalla tecnica che contrasta le leggi di natura. Infatti, se questi pazienti fossero lasciati alla mercé dei limiti naturali, essi non potrebbero sopra-vivere, ovvero vivere oltre il confine stabilito dagli ostili equilibri originariamente allestiti per regolamentare la vita sul pianeta terra.  

Quando diviene evidente che solo la morte può porre fine a tale condizione, allora l’angoscia prende il sopravvento e con essa le strategie di negazione, rimozione e inautenticità messe in essere tanto dal malato quanto dai suoi famigliari e dalla comunità curante.

Per questo motivo spesso ci comportiamo in modo irrazionale. Come per esempio lo è il fare causa ai medici se una cura non garantisce la guarigione o se un piano terapeutico presenta procura indesiderati effetti iatrogeni.

Il problema è che ci ammaliamo perché dobbiamo morire. La medicina non può far altro che regalarci un po’ di tempo in più. La ovremmo impiegare, anziché nella rincorsa verso la sopravvivenza indefinita, nella meditazione relativa al senso della vita già vissuta e di ciò che ci attende dopo la morte.

La mancanza di un pensiero in grado di dare senso in modo affidabile a questo momento produce disperazione, tanto in chi muore quanto in chi ama il morente». 

Fede 

Anche le religioni abramitiche che caratterizzano la storia dell’Occidente, da quando è stato decretato che i loro contenuti non hanno fondamento veritativo ma solo di fede (la fede non è verità e non è neanche una dimostrazione), si interessano sempre di più di politica anziché di spiritualità e dedizione alla contemplazione.

La Chiesa cattolica, infatti, ha molto investito in ospedali e cliniche. E’ entrata in modo capillare nel sistema sanitario nazionale, all’interno del quale cerca di far rispettare le proprie leggi morali senza preoccuparsi che gli ammalati corrispondano oppure no alle loro disposizioni.

In questo modo si comporta come un sovra-partito che può costringere all’obbedienza gli individui nel momento in cui essi sono più fragili. L’obiezione di coscienza dei medici cattolici fa solo incollerire gli utenti. Non accresce affatto la loro fede in un Dio che evidentemente ha abbandonato i linguaggi della tradizione e sta cercando nuove frontiere per farsi ascoltare.

Ma l’Italia è disposta ad accettarli. Perché non accettiamo che un medico testimone di Geova si opponga a trasfusioni di sangue? Oppure che un medico radicalmente musulmano si rifiuti di visitare una donna come accade in Afghanistan? 

Purtroppo, non è in queste strategie – spesso oggetto di importanti inchieste giornalistiche che mostrano interessi e affari non sempre chiari, per non dire dannosi per il sistema sanitario nazionale – che possiamo cogliere la manifestazione del divino.  

E ancora meno Dio è testimoniato dalle collusioni di politici che, per quanto divorziati, con amanti, molto ricchi e propensi alla bella vita, si affannano a voler corrispondere alle volontà del Vaticano contravvenendo a istanze sociali che richiedono ascolto e comprensione da decenni, ormai».  

Vita bionica 

E così, quando la “vita bionica”, ovvero quella di chi dipende totalmente dalla tecnica medica, diventa insopportabile, in Italia è impossibile ascoltare chi vuole farlo sapere e senza strumenti per farsi capire chiede aiuto a finire, come natura vorrebbe.  

Un tempo, la morte non era il temibile, lo era invece il dedicare alla vita del corpo più attenzioni di quelle dedicate all’anima. Ma questo è ciò che nessuna religione riesce più a insegnare. Le persone, quindi, non si fidano di chi asserisce che la vita appartiene a Dio e non a loro stessi.Perché la vita che vivono è gestita dalla tecnica medica, non dagli angeli. E lo scoramento, quando dinanzi ci sia solo la morte, in questo deserto di significati non può che essere drammatico.  

È così che la legge, per esempio, sul suicidio assistito è ancora ferma al Senato, nonostante l’ordinanza n. 207/2018 della Corte di Assise di Milano e il giudizio n. 242/2019 sull’articolo n. 580 del Codice penale. 

Con questo atteggiamento la Chiesa sembra testimoniare il maggior valore della vita biologica e bionica su quella spirituale. Perché non è obbligando a vivere le persone appese a una vita tutt’altro che rispondente alle leggi di natura che essa otterrà una conversione da parte di chi non le tributa alcun potere né morale né politico.

Questo atteggiamento semplicemente disorienta anche i fedeli e li allontana, come è stato per il divorzio e per l’aborto. I quali fedeli, stanno cercando un discorso ascoltabile, serio e credibile, capace di rispondere alle grandi sfide della modernità. La più importante delle quali relative al chiedersi se la parola Dio abbia a che fare con la “verità” oppure con un sogno che spesso diventa un incubo». 

L’autodeterminazione può essere assoluta? Ha dei limiti?  Chi ha la forza di imporli? 

«Nella società post-moderna non esistono principi normativi assoluti. L’autodeterminazione è la possibilità che viene data all’individuo di decidere di sé. Ed è possibile solo in un paese democratico e autenticamente laico in grado di stabilire che la vita appartiene agli individui.

Dove si decida che la vita appartiene allo Stato o a Dio, l’autodeterminazione è resa impossibile. O con leggi chiare, come avviene nei paesi mediorientali ai quali in Occidente non vorremmo assomigliare, o con giochi di corridoio nelle stanze del potere, come accade in Italia». 

In una sua intervista lei arriva a sbilanciarsi parlando di ‘death education’. Cosa significa? Come si fa a educare alla morte le giovani generazioni? 

«Sì, da 15 anni dirigo il master in Death Studies & The End of Life, all’Università di Padova, in cui discuto di tutte queste cose. E anche di come sia importante parlare apertamente di morte a tutto tondo. Senza tralasciare alcun aspetto, per poter affrontare il nostro più profondo inconscio, riconoscerlo e non temerlo.

In questo percorso insegnano importanti studiosi, di diverse discipline, dalla medicina alla sociologia, dalla filosofia alla psicologia, fino alla teologia. Ciò che questo master mette a disposizione è un sapere aconfessionale ma non ateo. Alla base ci sta la convinzione che tutte le religioni abbiano al proprio fondamento intuito ciò che è più importante sapere, dal punto di vista spirituale.

Ma è importante anche sapere che la loro intuizione relativa alla dimensione spirituale non giustifica la loro secolarizzazione ovvero il loro potere temporale. Anzi, il secondo uccide il primo. Coloro che si formano poi apprendono come poter gestire queste tematiche in ambito sanitario oppure come applicarle in percorsi tanto educativi quanto culturali». 

Nichilismo 

Professoressa, nei suoi scritti lei accenna alle volte alla ‘contemplazione dell’eterno’ cosa vuole dire? 

«Emanuele Severino è il filosofo che risolve le contraddizioni tra scienza e fede. Mostra l’errore fondamentale che tanto le religioni quanto il sapere scientifico condividono: il nichilismo. La convinzione sostanziale che siamo “mortali” ovvero annientabili è alla base di tutta la riflessione razionale e spirituale occidentale (ma anche orientale).  

Il filosofo bresciano mostra con assoluto rigore e in modo incontrovertibile la necessità dell’eternità degli essenti. Non si tratta quindi di una narrazione di fede, dettata dall’ispirazione che nasce dal cuore di qualcuno che pensa di essere in rapporto con Dio, quanto piuttosto di un discorso estremamente logico e fondante che permette di comprendere in modo critico la storia del pensiero, vedendone l’erroneità sostanziale. Sapere che siamo necessariamente eterni non è come non saperlo.  

Ma questa contemplazione richiede un’attenta analisi di quanto viene assunto come atto di fede e quanto è compreso in modo razionale. Per questo non è tanto la meditazione o la preghiera che aiutano ad accedere a questa contemplazione, quando piuttosto lo studio e l’esercizio del pensiero critico.

Una volta giunti a comprendere l’errore sostanziale del pensiero occidentale (e anche di quello orientale), allora nuove frontiere si aprono, innanzitutto rispetto alla stessa parola “Dio” e al rapporto con ciò che essa indica e con la rivelazione.

Ne discuto da tempo con alcuni teologi cristiani eccezionali, che non sono affatto impegnati in azioni politiche o nella tessitura di trame di corridoio nei palazzi del potere, i quali stanno già lavorando su questo nodo cruciale, ovvero su ciò che qualsiasi riflessione sull’immortalità, per essere credibile, oggi è chiamata a considerare». 

Leggi anche: Il dopo di noi. Chi se lo merita?

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