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Vivere con una malattia cronica

L'esperienza di Francesca Mannocchi, giornalista e scrittrice

  • Come cambia la prospettiva del paziente cronico?  
  • Come cambia la sua percezione del tempo?  
  • Il linguaggio medico riesce a descrivere gli aspetti della malattia? 
  • Come si comunica la malattia all’esterno? 
  • I sintomi di una malattia ci rendono automaticamente malati? 

La ricerca oncologica sta puntando a ridurre la mortalità della maggior parte delle neoplasie, dei tumori più aggressivi la cui mortalità è ancora molto alta. L’obiettivo della ricerca oncologica è quello di rendere croniche queste patologie. 

Come cambia la prospettiva della malattia per un paziente cronico? 

«Nel mio caso specifico non avevo avuto, per fortuna, fino alla diagnosi della mia malattia, esperienza o consuetudine con lo spazio ospedaliero che non fosse quella che, comunemente, purtroppo, hanno tutti i cittadini: qualche parente anziano ricoverato o necessità generiche di pronto soccorso.

Per cui, quando mi sono trovata obbligata dalla scoperta di questo danno, di questa malattia che aveva una presenza nella mia vita ma non aveva ancora un nome, e necessitava evidentemente della frequentazione dello spazio ospedaliero a lungo per scoprire esattamente di cosa si trattasse e dare un nome a questa malattia, mi sono resa conto che tutto quello che pensavo e credevo sullo spazio ospedaliero o era sbagliato o, perlomeno, non funzionava nel caso di malattie croniche. 

La frequentazione dello spazio ospedaliero più difficile è stata per me, paziente e cittadina, quella dei mesi del limbo diagnostico. Hai qualcosa che non va ma non è chiaro cosa. Adesso, a qualche anno di distanza, posso dire che la lunghezza di quel tempo diagnostico che è durato circa 6-7 mesi, sia stata provvidenziale, perché i medici hanno bisogno di un tempo a volte lungo per capire quale sia la terapia e darle un nome, fare una diagnosi, battezzare, in qualche modo, questo danno.  Oggi so che quel tempo era necessario, chiamiamolo un tempo di cautela. 

Quando hai qualcosa che non va vuoi sapere come si chiama e come si cura. Quando ti dicono come si chiama che si tratta di una malattia cronica, ti rendi conto che non si cura e quello è il secondo passaggio, molto complicato. 

Ho provato un sentimento di rivalsa verso quello che tutti noi siamo abituati a pensare sull’ospedale o, comunque, sulla medicina. Ho un danno e un medico curerà questo danno… si pensa che il medico sia il nostro guaritore. E invece no, e invece la malattia, soprattutto se cronica dovrebbe essere sempre uno spazio di negoziazione». 

Un tempo rivalutato, rinegoziato… 

Come cambia il concetto di tempo per un paziente affetto da malattia cronica?

«Il tempo cambia… in primo luogo muta la percezione: il tempo pare non appartenerti più.  

Di primo acchito l’impatto è: non sono più io a decidere della disponibilità del mio tempo. Nel mio caso, è successo soprattutto nei primi mesi. Penso alla mia vita, che è un po’ caotica e piuttosto movimentata. L’idea di essere vincolata a dei tempi il cui svolgimento non era nella mia disponibilità, è stata per me piuttosto traumatica.

Le ore di attesa nel reparto, i tempi lunghi della prenotazione di una visita o di una risonanza magnetica, in una regione un po’ complessa come il Lazio, in una città ancor più complessa come Roma… Questa è la parte negativa, ma temporanea, della mia prima reazione alla malattia.  

Poi, per me, la malattia è diventata un acceleratore del tempo, ha svelato un dato naturale insito che ognuno di noi ha dalla nascita e cioè: siamo finiti, destinati a morire. Di conseguenza, in linea di principio, non dovremmo lasciar passare neanche un nanosecondo della nostra vita senza averlo sfruttato il più possibile.  

Questo è un esercizio che noi umani dovremmo fare sempre, quotidianamente, anche da sani e, però, perdiamo di vista il valore dell’eccezionalità del tempo che viviamo e quindi smarriamo l’idea che il tempo vada usato tutto e bene. 

Ecco, dunque, il lato positivo della malattia cronica, che va trovato sempre, non tanto per resisterle a una malattia, ma per poterci convivere. Per quanto mi riguarda, ha significato innanzitutto prendere un foglio di carta per scrivere sulla metà di sinistra tutte le cose che non potevo più fare, perché non è vero che la vita resta uguale, cambia e dobbiamo dimostrarci adattabili.

Invece di deprimermi ho cercato di adattare la vita che restava a tutte quelle migliaia di cose che potevo ancora fare e, forse, addirittura meglio. Quindi, diciamo, la gestione del tempo è diventata questa cosa qui: se posso non lo spreco». 

L’altro punto che emerge dal libro è la fase secondaria di comunicazione col mondo esterno. «La comunicazione ha due piani principali.  

  1. La relazione con le parole della medicina. 

Un esempio banale: si ritira il referto, lo si legge e non lo si capisce. Questo, direi, è piuttosto scontato, non essendo io un medico e non avendo dimestichezza con le parole della medicina.

Il dato principale, però, è quello di non vedere rappresentata quella che è la preoccupazione del paziente, il suo dolore, ma soprattutto l’idea che il paziente voglia capire che cosa ha il suo corpo, dove sta l’inghippo, il danno, il che nome ha, come si profila, se si può curare…

Tutte queste cose sono spesso, a mio avviso, ingabbiate da una lingua che è scientifica, precisa, minuziosa, ma lontana dall’esperienza del corpo dei pazienti. Quello che ho fatto, aiutata dalla mia professione di giornalista, è stato il relazionarmi con i medici così come mi relaziono con le persone che incontro nei luoghi di lavoro e, cioè, a dire loro: questa cosa qui come la spiegheresti a un bambino di 6 anni? Perché io non la capisco e ho bisogno di saperla anche in maniera violenta e brutale. 

  1. A me, Francesca, quella brutalità spaventa meno della lingua che la mia esperienza di paziente mistifica, nasconde, tende a rendere la malattia distante. Ma la malattia non è distante dal paziente, ce l’ha dentro di sé, ce l’ho dentro di me. L’altro ieri non riuscivo ad alzarmi dal letto, perché questa malattia si manifesta anche sotto forma di stanchezza che può diventare cronica. Eio voglio sapere da dove viene quella roba lì, voglio sapere come si chiama, usando delle parole semplici. 
  1. Come faccio a far capire alle persone che ho intorno, che mi amano e che per fortuna non hanno un danno, come mi sento io adesso? 

La malattia cronica è un’esperienza di profonda, di grande solitudine, ma non necessariamente negativa. C’è un punto di questa esperienza infinita che i nostri cari, per quanto ci amino, non possono raggiungere, perché non hanno attraversato le stesse cose. Ed è per questo, concludo, che il nostro paese, il nostro sistema sanitario, non può non interrogarsi su quanto la cura medica, la terapia medica, debba necessariamente essere affiancata da quella psicologica». 

Dopo aver sfiorato la comunicazione tra paziente e realtà ospedaliera, tra paziente e la sua malattia e tra paziente e medico, come si relaziona il malato cronico con la società? 

«Si tende spesso a metaforizzare ciò che non sappiamo affrontare. La battaglia contro la malattia… ma non esiste nessuna battaglia contro la malattia, il paziente non è in guerra con una malattia.  

Cosa significa ho vinto la malattia? 

Arriva la pandemia che impatta sulla vita collettiva e stravolge tutto, non è una battaglia, non è una guerra. La metafora bellica ha devastato la percezione della malattia del singolo e la percezione della malattia collettiva perché ha reso sacrificabili alcune vite. Siamo in guerra… La malattia non è una gara che deve essere superata.  

Questa è una sciocchezza che crea il riferimento a un senso di fallimento psicologico nella mente di tutti quelli che non riescono a sopravvivere a questa esperienza, all’esperienza tragica della malattia, alla malattia degenerativa. 

La retorica della metafora bellica è una roba che andrebbe eliminata ieri! 

L’altra dimensione di una comunicazione errata è quella legata alla pietà spiccia del ‘poverino’, della ‘vittima’. Io, in 7 anni, ho avuto modo di incontrare persone in sedia a rotelle con una forma degenerativa di sclerosi multipla, la patologia di cui soffro, molto più violenta della mia, e sono persone a cui la parola ‘poverino’ non può essere rivolta. 

La vittimizzazione predispone alla resa.  In realtà, la realtà è tragica, la normalità è tragica, ognuno di noi, purtroppo, può essere colpito da qualcosa di inaspettato, imprevedibile. Stop, dunque, alla retorica vittimistica». 

Secondo te esiste una ricetta per poter migliorare queste incomprensioni sulla malattia cronica? 

«Io ho una malattia che è appunto la sclerosi multipla, nella sua forma più comune. È una patologia degenerativa ma nel mio caso non ha assunto ricadute invalidanti. Lo premetto per dire che non so se penserai le stesse cose se mi trovassi su una sedia a rotelle o se necessitassi di un deambulatore per alzarmi dalla sedia… 

A parte i primi mesi che, come dicevo, sono stati davvero molto faticosi perché l’accettazione di una malattia non è mai un’esperienza facile da vivere. Quella che è venuto dopo è stata un’esperienza anche di abbandono della vita che avevo prima, delle certezze di prima, del controllo di prima.

Dall’idea che tutto si possa risolvere e tutto possa in qualche modo tornare uguale a: tutto può cambiare improvvisamente e possiamo trovarci a vivere queste dimensioni. 

La pandemia avrebbe dovuto insegnarcelo, dobbiamo avere la capacità di rassegnarci al cambiamento se non addirittura accettarlo. Imparare a vivere con una condizione diversa.  

La malattia cronica non si può eliminare. Bisogna riuscire ad aprire una stanza in più, allargare casa per fare spazio a qualcosa di brutto che purtroppo, però, è arrivato; bisogna cominciare a parlare pubblicamente di malattia come qualcosa con cui si può si può e si deve convivere.  

Soprattutto, dobbiamo aprire un dibattito molto ampio sulla gestione anche nelle terapie dei pazienti, sul supporto della vita familiare. Perché, la malattia, non è mai solo questione del singolo». 

Questo articolo è tratto dal podcast di Aureliano Stingi di Alterthink per la serie “La Grande C” disponibile su Spotify: intervista Francesca Mannocchi giornalista scrittrice e autrice del libro: “Bianco è il colore del danno”. 

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