Franca, lei è una giornalista laureata in medicina e si è occupata di svariate tematiche scientifiche. Perché, a un certo punto, ha deciso di realizzare non una, ma ben due, pubblicazioni importanti, per Franco Angeli: Traffico d’organi. Nuovi cannibali, vecchie miserie, 2012 e Vite a perdere, 2018, legate entrambe al traffico degli organi?
Alla fine degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila mi sono occupata spesso di trapianti d’organo per il Corriere della Sera, la testata per cui lavoravo. Proprio in quegli anni crescevano i rumors sul traffico d’organi da inchieste giornalistiche. Soprattutto in testate anglosassoni, che raccontavano della vendita dei reni in India, in Brasile, nelle Filippine ( i trapianti avvenivano in cliniche private o in ospedale “camuffati” da donazioni), e nei paesi dell’Ex Unione Sovietica (in questo caso i trapianti clandestini avvenivano in una clinica di Istanbul, in Turchia).
Ma sembrava impossibile: la comunità scientifica negava con forza che questo mercato esistesse, lo negava con un’intransigenza tale da sembrare sospetta. Devo dire che la direzione del Corriere della Sera dei primi anni Duemila (Ferruccio de Bortoli) mostrò una grande sensibilità verso questi problemi. Un giovane inviato, Andrea Nicastro, nel 2001 riuscì a scovare nella clinica Vatan di Instabul un paziente italiano in attesa di un trapianto di rene a pagamento.
Il servizio fu pubblicato e fece un certo scalpore. Così cominciai ad appassionarmi a questa storia. E quando l’antropologa Nancy Scheper-Hughes pubblicò nel 2003 sulla rivista Lancet il primo report “scientifico” sul traffico d’organi, la Direzione mi permise di fare un servizio che lo raccontava. La cosa ebbe un grande risalto.
È stata una delle prime giornaliste a dedicarsi a questo tema. Quali resistenze, secondo lei, hanno bloccato questa proposta di riflessione all’opinione pubblica? Ha dovuto fronteggiare difficoltà in tal senso?
Le resistenze a quell’epoca erano enormi. I direttori delle principali testate giornalistiche, sia nella carta stampata che in RAI, temevano questo argomento. Era scomodo per tutti, e pericoloso, perché il mercato degli organi è gestito dalla criminalità organizzata. Ma il motivo principale era la “sudditanza” dei giornalisti alla classe medica che faceva muro, negava tutto. Anche perché questo traffico coinvolgeva, e coinvolge, colleghi chirurghi che avevano (e hanno) una sorta di doppia vita.
Un famoso chirurgo tedesco fu sollevato dal suo incarico di primario perché emerse che, invece di andare in ferie, era volato negli Emirati Arabi a fare trapianti clandestini. Eppure il Centro Nazionale Trapianti ha negato fino a pochi anni fa l’esistenza del traffico d’organi. Meglio parlare di “leggenda metropolitana”.
Quanto le è stata d’aiuto l’azione dirompente dell’antropologa americana Nancy Scheper- Hughes?
Il lavoro di Nancy Scheper-Hughes, che grazie ai finanziamenti dell’università di Berkeley e del miliardario George Soros, aveva fondato Organ Watch, organizzazione no profit finalizzata a documentare il traffico d’organi, è stato fondamentale.
I suoi collaboratori ne scovarono le prove in Brasile, in India, nelle Filippine. L’ autorevole rivista Lancet pubblicò il loro “affresco” con grande risalto. Lì si infranse la “leggenda metropolitana”. Anche la rivista JAMA pubblicò un’inchiesta realizzata da medici americani in India, nei villaggi dove buona parte della popolazione aveva venduto un rene.
Nei suoi libri lo denuncia con forza. Ci troviamo davanti a una sorta di neocolonialismo dei Paesi ricchi nei confronti della povertà disperata. Un business che vale almeno un miliardo e mezzo di dollari. Può fare qualche esempio concreto che ci aiuti a comprendere meglio?
Il flusso del mercato degli organi si muove sempre nella stessa direzione: dai Paesi ricchi a quelli poveri. Gli americani vanno in cerca di organi in Brasile o nelle Filippine. Gli europei in Egitto e in Sudafrica, i giapponesi in Cina, in Nepal e in India.
Dove c’è più povertà, c’è più offerta. E la rete si è organizzata.
Al momento attuale, ad esempio, è in Egitto, al Cairo, uno dei crocevia più importanti del traffico. Lì sono nate cliniche clandestine dove si fanno trapianti d’organo a pagamento. I clienti sono israeliani, arabi e europei. I “donatori” vengono dai campi profughi, dal Sudan e da altri paesi africani.
Nei suoi libri lei racconta degli intermediari. Dell’opera di convincimento che portano avanti questi procacciatori di organi, nell’intento di far cadere gli indugi dei potenziali ‘donatori’. Oggi, 10 anni dopo, ha senso dire che i disperati stessi sono disposti a pagare tutto ciò che hanno e che sono pur di passare il Mediterraneo per venire da noi? Quali nuove possibilità offre oggi il business sui migranti?
È l’argomento chiave del secondo libro che ho fatto con Patrizia Borsellino, docente di filosofia del diritto all’università Bicocca di Milano, Vite a perdere. Nel libro si raccontano le prove esistenti oggi del commercio degli organi nei campi profughi. Dove i broker reclutano le loro vittime per portarle al Cairo, dove viene loro prelevato il rene.
Dopo l’intervento ricevono il compenso, sempre irrisorio rispetto ai guadagni del broker e, soprattutto, del chirurgo, e vengono riportate nei campi o nel Paese di origine. Ogni tanto la polizia fa irruzione in queste cliniche, le fa chiudere per un po’, poi il traffico ricomincia.
Il grosso del business dei trapianti riguarda il rene perché c’è una grande richiesta, è un intervento ormai relativamente semplice e il “donatore” può vivere con un rene solo. Ma in Cina, dove vengono prelevati gli organi ai condannati a morte, nelle cliniche clandestine si trapianta di tutto. Nel libro se ne parla diffusamente.
Una domanda molto personale, delicata: alla luce dei risultati raccapriccianti delle sue inchieste giornalistiche, come si porrebbe davanti alla possibilità di donare a qualcuno un pezzettino di sé?
Sono favorevole alle donazioni.