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Relazioni e longevità

Più Vita e più Salute per chi vive in comunità allargate

Un recentissimo paper sul rapporto tra longevità e socialità, pubblicato su Nature Communications, ha attirato la nostra attenzione.

Non avendo tutti gli strumenti per poterlo comprendere appieno ci siamo affidati a Mattia Farris, noto divulgatore e studente di biologia molecolare.

Relazioni e longevità

Come si correlano questi due termini?

«La vita di gruppo sembra essere una delle chiavi della longevità: questo indica uno studio condotto su quasi 1.000 specie di mammiferi.

Sono state analizzate 974 specie confrontando la vita solitaria, di coppia e di gruppo con l’aspettativa di vita.

I risultati dimostrano che chi vive in gruppo gode, generalmente, di una vita più lunga.

La socialità è dunque risultata, assieme all’affettività e a tutte le altre dimensioni ‘comuni’ interdipendenti, un dato intrinsecamente correlato alla longevità e al benessere».

Si pensava che bastasse il DNA

«Il DNA funziona come un libro di ricette: contiene nelle sue pagine tutte le informazioni necessarie a formare e far funzionare correttamente il nostro corpo, ma non dobbiamo dimenticare altre variabili come, ad esempio, l’ambiente circostante.

L’ambiente può essere immaginato come il cuoco che interpreta quelle ricette, dando a ogni piatto quel tocco in più per far emergere un sapore particolare.

Il funzionamento del DNA è influenzato da ciò che ci accade, dalle nostre scelte e da ciò che è accaduto, in parte, anche ai nostri genitori e/o nonni.

Il nostro stile di vita, quello che mangiamo, viviamo e respiriamo, può lasciare delle tracce nel nostro patrimonio genetico e questi cambiamenti avvengono per tutta la nostra esistenza. L’effetto dell’ambiente sul DNA è impattante anche per ciò che concerne il livello intellettivo».

Ci spieghi meglio cosa intendi?

«La storia antica è piena di episodi di bambini perduti o abbandonati, vissuti poi nell’ambiente più selvaggio a contatto con lupi, orsi e cani. Storie che hanno dato origine a innumerevoli racconti di fantasia come Tarzan, cresciuto dalle scimmie, o la leggenda di Romolo e Remo.

Ma, tornando con i piedi per terra, nessuno dei bambini cresciuti lontano dagli esseri umani ha mai fondato la capitale di un grande impero. Anzi, pochi sono riusciti a reinserirsi pienamente nella comunità.

La precoce separazione dei bambini dalla società, impedisce a questi umani di diventare pienamente e propriamente umani.

Cosa intendo? Ciò che chiamiamo intelligenza ha sicuramente una base genetica ma questa fornisce solo il materiale grezzo, saranno l’ambiente, la vita e le esperienze relazionali a scolpire quel materiale e trasformarlo in una splendida scultura.

Se, per contro, quel materiale di base non venisse toccato e plasmato, la scultura da quel marmo iniziale estratto dalla cava non emergerà mai alla luce piena.

L’importanza di un ambiente stimolante e ricco di calore umano è drammaticamente evidente fin dai primi giorni di vita e ce ne si è accorti nel modo più tragico».

Storia

Cioè?

«Nei primi del 900, negli orfanotrofi americani, la maggioranza dei neonati moriva nonostante fossero garantiti cibo e igiene necessari. I bimbi precipitavano nell’apatia più totale per poi morire misteriosamente.

Nel 1894, il medico Luther Emmett Holt scrisse un libro che forniva ai genitori una serie di raccomandazioni per la cura dei neonati: toccarli il meno possibile e metterli nella culla appena finite le operazioni di routine. Tutto questo per non viziarli troppo.

Nel 1928 un altro medico, John Watson, pubblicò un libro nel quale suggeriva ai genitori di mettere distanza fra loro e i bimbi: mai abbracciarli e baciarli. Al massimo, un bacio in fronte la sera e una stretta di mano la mattina per evitare che crescessero troppo “sdolcinati”.

Questa idea assurda di non interagire con i neonati sembra presentarsi più volte nel corso della storia, anche se con motivazioni diverse e particolari.

Quando si intuì l’importanza delle relazioni affettive, negli orfanotrofi americani venne inserita nel protocollo la norma di tenere in braccio ciascun neonato almeno 10 minuti al giorno, guarda caso la sopravvivenza migliorò tantissimo.

Il dato certo, che a noi oggi pare scontatamente chiaro è che i bambini, per crescere in modo equilibrato, non possono fare a meno dell’interazione umana, del semplice tocco fisico».

«Noi esseri umani non abbiamo bisogno solo di cibo ma anche di contatto. Ciò è vitale per i più piccoli ma anche per gli adulti.Una semplice carezza porta numerosi benefici».

Una carezza?

«Il paper dal quale siamo partiti osserva che in risposta a una carezza, alcune fibre specifiche mandano un segnale al midollo che poi lo invia al cervello. Tutto questo provoca un rilascio di ossitocina che rallenta il battito cardiaco, si rilasciano endorfine e in queste condizioni anche il sistema immunitario funziona meglio».

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