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Biogem. La Ricerca nel Meridione d’Italia 

Tra scienza e cultura umanistica

Intervista al Dr. Napolitano, bioinformatico e ricercatore

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Dottor Napolitano, ci può dire di cosa si occupa Biogem? 

«Biogem è un istituto di ricerca con sede in Ariano Irpino (AV) che si occupa di condurre studi nell’ambito della biologia e della genetica molecolare (da cui il nome). È coinvolto anche in diversi progetti didattici e divulgativi. Formalmente è una società consortile costituita da numerosi atenei e centri di ricerca sparsi sul territorio nazionale». 

Lei che ruolo svolge? 

«Collaboro con Biogem attraverso un accordo con la mia Università (Benevento). Attualmente ho un incarico di ricerca su un progetto che riguarda lo studio dei meccanismi molecolari coinvolti nell’osteoartrite per l’individuazione di possibili terapie. In qualità di bioinformatico, offro il mio contributo al gruppo che si occupa di effettuare analisi computazionali dei dati biomedici relativi alla malattia e ai potenziali nuovi farmaci per trattarla. 

Ricerca al Sud Italia 

Come mai proprio in Campania? Perdoni la domanda, ma quando si pensa alla ricerca vengono in mente scenari più ‘nordici’. 

«L’Italia è un paese che viaggia a velocità diverse a seconda delle latitudini, e anche la ricerca, purtroppo, non può che riflettere fatalmente tali differenze.  

Per fortuna le notevoli eccezioni esistenti dimostrano l’enorme potenziale che emerge quando si riserva il dovuto spazio alle competenze, alla visione e alle buone pratiche. In un panorama non florido, il meridione italiano conta infatti numerosissime eccellenze, per certi versi riproducendo su scala nazionale la stessa maledizione che sembra condannare l’Italia a restare uno dei paesi avanzati dove è più difficile fare ricerca, ma al contempo uno dei più rispettati al mondo in numerosi campi del sapere. È il destino delle realtà trainate dai singoli guizzi di genio, piuttosto che dall’impegno sistematico e da una visione condivisa degli obiettivi.  

L’Italia è intelligente ma non si applica, mi verrebbe da dire. 

Tornando ad uno dei molteplici esempi in cui si è data da fare, invece, non è un caso che Biogem sia sorto in Campania. Il progetto nacque da due meridionali: Gaetano Salvatore, grande scienziato che ci ha lasciato nel ’97, e Ortensio Zecchino, stimato storico e politico tuttora in attività. Gli istituti di ricerca, oltre che fondamentali fabbriche di conoscenza, sono anche catalizzatori di sviluppo e presìdi di futuribilità».  

Presidi di futuribilità? 

«Intendo dire che laddove sussiste una spinta all’innovazione, le nuove generazioni possono intravedere terreno fertile per il futuro che hanno in mente. Quando tale spiraglio manca, il sacro fuoco del cambiamento o si spegne o li porta via, e così ogni anno migliaia delle nostre migliori teste decidono di andare a brillare altrove: un’emorragia nazionale che al Sud è ormai emergenza cronica.  

Realtà come Biogem, sorto in un’area rurale dell’entroterra avellinese, possono fare da argine a questo penoso stillicidio, mantenendo viva l’idea che tra i costruttori di futuro ci sia posto anche per chi resta. 

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Le culture vanno insieme 

Parliamo del Convegno annuale sulle “due culture”, che rapporto esiste tra la cultura scientifica e quella umanistica? 

«Le due culture è ormai un’antica tradizione di Biogem, la cui origine si spiega facilmente dalla vocazione “bicefala” conferita all’istituto dai due fondatori.  

La questione del rapporto tra la cultura umanistica e quella scientifica è estremamente complessa ed è passata attraverso infiniti dibattiti nel corso della storia, tuttora molto vivi. Probabilmente la materia umanistica più discussa dagli scienziati è la filosofia, in quanto storicamente madre alla scienza moderna. Tra i critici attuali più famosi, ad esempio, ha fatto molto discutere l’astrofisico e divulgatore Neil deGrass Tyson, che considera l’intera disciplina un’inutile distrazione. Per non parlare del suo celeberrimo collega Stephen Hawking, il quale, senza troppi giri di parole, affermò che “la filosofia è morta”.  

Personalmente trovo invece illuminante, nonché scaltra, la posizione espressa qualche anno fa del nostro Carlo Rovelli:  

Nel momento in cui affermi che la filosofia non serve, stai facendo filosofia.  

La verità più profonda dietro questa osservazione, a mio avviso, è che le conoscenze derivanti dalle materie umanistiche sono talmente radicate in noi che quando vi facciamo ricorso neppure ce ne rendiamo conto. Grazie agli occhiali della cultura, cerchiamo il significato perso della cultura stessa, senza accorgerci che ce l’abbiamo sul naso. 

Molto spesso, nel discutere il rapporto tra le due culture, ricorro all’esempio dell’esplorazione spaziale. Molti scienziati e appassionati difendono gli ingenti investimenti necessari a tali colossali imprese facendo leva sulle ricadute tecnologiche ed economiche. Sappiamo, infatti, che affrontare sfide molto difficili ci costringe a immaginare soluzioni che non esistono ancora.

Ed è infatti grazie alla ricerca spaziale se oggi disponiamo di tecnologie che vanno dalle fotocamere dei cellulari ai computer portatili, dalle luci a LED alla stampa 3D. Attraverso dati del genere si cerca di dimostrare che gli investimenti impiegati nella ricerca spaziale vengano ampiamente ripagati.

E tuttavia questi calcoli sono estremamente difficili da fare. Primo, perché non sappiamo cosa sarebbe successo se avessimo dirottato lo stesso denaro su altri obiettivi. Secondo, perché nessun metro può misurare il valore socio-economico della scintilla vitale che si accende nello sguardo di un ragazzo quando vede l’orma lasciata dallo stivale di Neil Armstrong nella regolite lunare.

Per questo ritengo futili i tentativi di giustificare per vie quantitative gli enormi investimenti necessari alla ricerca spaziale. Senza dubbio J. F. Kennedy riassunse meglio di tutti il senso del primo viaggio verso la Luna quando, nel suo celebre discorso, affermò che “ci andiamo perché è difficile”.  

Una motivazione filosofica che riguarda il ruolo dell’essere umano nel mondo e il senso stesso della sua esistenza. Ecco, la cultura scientifica può fornire i mezzi per superare limiti che ritenevamo invalicabili, ma è in base a quella umanistica che decidiamo dove andare con tali mezzi. A me appare chiaro che l’una non possa fare a meno dell’altra. 

Cervelli rientrati 

La sua partecipazione sarà di sicuro appassionata, ci racconta il perché di tale sensibilità? 

«Per lo Stato italiano, io sono ufficialmente un “cervello rientrato” (ma giuro che anche tutti gli altri organi sono al loro posto) e la mia collaborazione con Biogem è molto recente. Al di là della menzionata partecipazione, comunque, questo è proprio il tipo di domande che mandano in crisi l’approccio scientifico.  

Mi si chiede perché sia particolarmente sensibile a un tema, ma non c’è teorema, calcolo o algoritmo cui possa fare ricorso per rispondere. Le motivazioni, probabilmente, originano dalla mia personale visione del mondo. Credo che la meraviglia abbagliante della scoperta debba fare i conti con la consapevolezza che solo nel momento in cui viene condivisa acquista davvero un senso. E il sapore di onnipotenza lasciato in bocca da un nuovo sapere resta puntualmente travolto dalla valanga delle domande rimaste senza risposta. Persino adesso ho provato a fare in modo da non aggiungerne un’altra, ma non credo di esserci riuscito». 

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