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Mamma Perfetta 

Prosegue il dialogo con Carla Q. Corsi, autrice del libro “Piccolo inventario dei saluti”, che si concentra sull’idea di “perfezione materna” 

Carla, sono stato toccato dall’articolo di un quotidiano nazionale. Si accennava alla figura della “mamma perfetta”. Ho letto il tuo libro, Piccolo inventario dei ricordi, e tu hai una idea di perfezione poco convenzionale.

Ce ne parli? La tua capacità di descrizione dei sentimenti profondi mi è nota. Desidererei tu provassi a sciogliere la questione non con un pensiero, come dire… filosofico, astratto. Ma partendo da alcuni fotogrammi della tua vita di figlia e di madre. 

Nel Piccolo inventario dei saluti ho tentato di scardinare la validità di idea di perfezione a partire proprio dal rapporto che si crea tra mamma e figlia. Un rapporto che si dimostra immediatamente inclinato, malmesso.

Agata è senza dubbio una mamma imperfetta e il libro comincia proprio con la sua “consacrazione” all’imperfezione. Abbandona sua figlia perché si sente inadatta, incapace e soprattutto stanca da morire. Per cui la mia idea di perfezione sta nella sua negazione. Da nessuno di noi sarà mai raggiungibile, quindi tanto meglio rinunciare subito a priori alla sua conquista.  

Accettare l’imperfezione 

Sembrerà una banalità, ma l’interiorizzazione da parte mia di questo concetto così semplice e pulito ha richiesto un lavoro interiore non indifferente. E, soprattutto, il fatto di dover accettare profondamente la mia, di imperfezione.

Perché è facile proclamare l’imperfezione del mondo, più difficile è riconoscere e accettare la propria. Quando è nata mia figlia, come tutti i genitori, avevo una serie di idee preconfezionate sulla maternità che mi si sono rivelate nel migliore dei casi inutili, nel peggiore, dannose.

La narrazione che viene fatta della genitorialità è inquinata da una serie di tabù di cui si parla ancora a stento. E non sempre nel modo corretto, a mio avviso.

Quello che sappiamo, prima che nascano i nostri figli, è che i bambini sono meravigliosi, estasianti, che arriveranno a riempire finalmente la vita, a rendere saldo l’amore di coppia. Arriveranno a dare senso e forma. Sappiamo che l’istinto materno e paterno basterà a sapere cosa è meglio fare.  

Ma la verità è che quando i figli arrivano sono tutto, ma difficilmente sono quello che ho appena elencato. Sono fatica, sentimenti di inadeguatezza, incapacità, fragilità. Arrivano a minare le fondamenta della coppia (ed è per questo che bisogna lavorare molto in due per ricostruire per bene laddove il nuovo o la nuova arrivata hanno lacerato).

Spesso sembra che lo tolgano il senso a una vita che, tutto sommato, prima, sembrava procedere: penso alle questioni lavorative dei genitori, al nuovo assetto familiare da organizzare, al tempo che manca sempre. 

Imparare a ricostruire da zero 

Spesso l’istinto si rivelerà inutile perché non sempre va nella direzione giusta. I figli e le figlie arrivano a mettere alla prova. E quello che testano, in primis, è la capacità dei genitori di fare un enorme falò di tutte le convinzioni raccolte sino ad allora sulla maternità e paternità.  

Bisogna ricostruire il proprio sapere da zero, provando a mettersi in discussione e a mettere in discussione tutto quello che ci è stato passato.

Bisogna considerare da subito che la persona piccola che abbiamo tra le braccia non è e non sarà mai né la nostra copia né quella dell’idea che ci siamo fatti di lui o di lei. La persona che abbiamo tra le braccia è ALTRO. E l’altro è diverso, ha tratti e peculiarità che vanno rispettati e sostenuti e conosciuti. 

Mi chiedi della mia vita di figlia e mamma. Io non sono stata una figlia facile. Ero un’autistica quando le diagnosi di autismo venivano fatte fondamentalmente solo ai maschi e solo se appariva un’evidente compromissione linguistica e cognitiva. L’autismo ad alto funzionamento non esisteva, ma io lo ero lo stesso e quindi non ero una figlia facile.

Questo perché tutti gli spigoli dovuti alla mia condizione venivano presi per capricci, fastidi, incapacità mia di stare al mondo, esagerazioni. E più succedeva questo più i miei spigoli diventavano invadenti, impossibili da gestire, per me e per gli altri. In questo modo si cresce, davvero, con la convinzione di essere fatta male – altro che perfetta, proprio il contrario o anche peggio del contrario. Quasi aliena, quasi mostruosa.  

Perché molte delle mie rigidità, delle mie incandescenze, dei miei tratti più complessi, io stessa non sapevo gestirli o governarli. Negli anni, prima della diagnosi, ho sviluppato quest’idea che la perfezione esistesse eccome. Tutti ne facevano parte, tranne me e tutti i miei sforzi li ho canalizzati in questo orrendo tentativo di nascondere agli altri chi fossi davvero, semplicemente perché quello che ero veniva considerato un errore. 

Imperfezione meravigliosa 

Quando è nata mia figlia, è cominciato un processo di riconoscimento di cui non mi sono accorta subito. Mia figlia aveva quei tratti, quegli spigoli e quelle rigidità che io per tanto tempo ho sofferto e nascosto.

E questo mi ha spinto, proprio perché non volevo che anche lei vivesse quella sensazione che avevo vissuto io di essere sbagliata e fatta male, a conoscerla davvero per quella che era.

A provare a capirla nelle sue necessità e bisogni e facendo questo ho cominciato a capire anche me. Anche mia figlia, ovviamente, è una bambina autistica ad alto funzionamento e questo significa che la nostra vita è totalmente imperfetta, se vista da fuori.

Noi facciamo tutti i giorni i conti con la difficoltà di adeguamento a un mondo che è perlopiù pensato per neurotipici. Dobbiamo difenderci dal rumore, dalle luci troppo forti, dalla confusione che fanno gli altri bambini mentre giocano. Dal ritmo veloce che la maggior parte delle persone sembra sopportare più di noi, dalla stanchezza fisica e mentale cronica.

Dai contatti fisici spesso indesiderati, dall’incapacità di mantenere troppo a lungo l’attenzione su qualcosa, dal nostro essere un po’ goffi, eccentrici, fuori luogo. Dal non sapere mai bene cosa dire, dal non capire sempre le situazioni sociali in cui siamo immersi. Da chi pensa che essere autistici o autistiche sia una menomazione e, se va bene, ispira pietà ma se va male, porta distanza o fastidio.  

Ma la verità è che l’imperfezione di mia figlia io la trovo meravigliosa. E non perché, in qualche modo e in alcuni punti, coincide con la mia - non si è mai autistici tutti allo stesso modo – ma perché lo è davvero. 

Il mondo che mia figlia mi offre è di una grazia e di una poesia commoventi. E non posso fare altro che pensare che la bellezza di mia figlia sia tale proprio grazie a tutto ciò che la rende agli occhi degli altri imperfetta, un po’ storta, un po’ strana

Come si determina il “successo” o il fallimento di una mamma? Ho letto un tuo post su twitter nel quale dipingevi il quadro di una mattina d’inverno davanti a scuola, mentre accompagnavi la tua bambina. Lei piangeva, malgrado gli abbracci, non aveva voglia di andare a scuola. Siete andate insieme a prendere un gelatone. Mamma snaturata? 

Che cosa determina il successo o il fallimento di una mamma? È una cosa difficile da chiedere a una donna che quotidianamente si chiede se quello che fa sia fatto abbastanza bene da non creare troppi danni. Non posso avere una risposta netta e definitiva, ti posso dire quello che cerco di fare io, nella speranza di provocare, appunto, pochi danni.

Io cerco di mettermi in dubbio. Di raddrizzare il tiro quando mi accorgo di aver fatto uno scivolone. E non pretendere troppo da me stessa e di essere gentile e comprensiva con le mie mancanze.

Ascoltare quello che mia figlia ha da dirmi e di cercare di capire anche quando questo qualcosa non riesce a venire fuori; comprendere i limiti di entrambe e non pretendere che vengano superati se non si è pronti a farlo.  

E poi ho imparato a fare questa cosa bellissima, che nessuno aveva mai fatto con me e che mi fa sentire molto bene: chiedere scusa.  

Se faccio un errore madornale, evidente, se mi accorgo che il modo in cui mi sono posta con mia figlia altro non era che disattenzione e mancanza di volontà o stanchezza che ho fatto pagare a lei, allora chiedo scusa.

Se l’ho ferita non volendo, le chiedo scusa. Perché mi piace proprio l’idea che sappia che si può sbagliare e ci si può pure comportare non al meglio delle proprie possibilità. Ma che c’è comunque un modo semplice e onesto per tornare vicine, vale a dire riconoscere le proprie responsabilità, senza nascondersi dietro un “ruolo di potere”. Quando capita che le chieda scusa, io imparo sempre molto dal suo modo di essere comprensiva. 

Mi piace pensare al rapporto con mia figlia come a un legame che venga cucito lentamente e con pazienza. A un lavoro lungo e meticoloso in cui si può cadere in errore ma che concede la possibilità di tornare un po’ indietro e rifarlo meglio

Quando ti guardi allo specchio interiore, che cosa ti rimproveri in quanto aspirante mamma? Ma i rimproveri a che servono? 

I rimproveri servono fino a un certo punto. Io sono più abituata a chiedermi il motivo di un certo mio modo di agire, di un sentimento, di una paura, di un cedimento. Ho imparato a non alzare troppo la voce con me. Che quando la alzavo in passato – e la alzavo parecchio, di continuo, ero dispotica – funzionavo assai male e non mi aiutavo a migliorare.

Adesso che in ballo non ci sono più solo io, ma anche mia figlia, provo a usare la comprensione che avrei voluto che altri usassero con me. A dirmi che, “ok, stavolta è andata male, è vero, forse pure malissimo e adesso sto uno straccio, ma poteva succedere a tutti”. Succede spesso a tutti. A volte funziona bene, altre meno, ma almeno non inasprisco i rapporti con quella che sta nello specchio

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