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Intervista al Dott. Nicola Bressi

Zoologo e curatore del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste

Nicola, non avevo letto il tuo curriculum, ignoravo tutti i tuoi titoli e ho cominciato a seguirti su Twitter, così, non so bene perché. 

Ah, ecco, forse… credo di aver cominciato a seguire i tuoi post perché ho sentito (sentire è un verbo che mi piace moltissimo, un verbo che sfocia nella leggerezza profonda delle sensazioni), ho sentito qualche cosa di grande emergere da qualche foto molto particolare accompagnata, a volte, da una o due frasi molto concise. 

«Mi piace», ho pensato. 

Poi sono andato a leggere il tuo CV vecchio, quello non aggiornato:  
ex Direttore Servizio Musei Scientifici di Trieste  

  • Museo Civico di Storia Naturale,  
  • Civico Museo del Mare,  
  • Civico Acquario Marino,  
  • Civico Orto Botanico 
  • … e seguono 10 pagine di mostrine in PDF.

Bene, prima di formulare le domande vere che mi pulsano dentro, la prima come introduzione:  

Nicola Bressi, sei tu quello del CV o sono vittima di una gaffe, uno scambio di persona omonima? 

«Sì, sono io». 

E allora, ecco le domande vere 

In un Salmo della tradizione ebraico cristiana si canta la magnificenza e la potenza del Creatore, inneggiata dalla bocca dei lattanti. Una fonte di lode spiazzante per ciò che di solito si inquadra per potenza e magnificenza… Bene, i tuoi post, le tue osservazioni della magnificenza che ci circonda mi spiazzano di continuo.

Tu osservi i particolari della bellezza: la varietà di erbe e piante sui binari della stazione di Mestre, la grazia fazioni minute del Piro piro piccolo, che rovista con il becco per scovare piccoli crostacei, molluschi e anellidi di cui si ciba, e via discorrendo. 

Cosa cerchi nelle pieghe dei particolari? Cosa vuoi spiegare? 

«Mah, in realtà sono osservazioni che io faccio comunque, non per spiegare qualcosa a qualcuno. 

Sono sempre stato molto più attratto dalle erbacce sul marciapiede che dalle vetrine colorate, sin da quando ero bambino. Certo, come gli altri ero attratto dai giochi, ma ho sempre preferito soffermare la mia attenzione sugli animali, sulla mosca che sbatteva sulla finestra, ecc. Quel mondo e quel modo di vedere mi ha sempre attirato. Ecco, io non spiego nulla, ma rivelo ciò che sono. 

Crescendo, mi sono reso conto quanto questa particolarità potesse forse essere utile.  

Non ci si rende conto della natura che vive attorno a noi, la si ignora, molto spesso. Per quanto riguarda le piante, soprattutto, le si considera una specie di ornamento – i botanici la definiscono “cecità botanica”. Nelle città, durante il periodo pasquale in genere, si affiggono cartelloni che sensibilizzano alla vita: rispettiamo la vita (intesa con la vita animale).

Campagna giustissima, ineccepibile, ma non sarebbe meglio scrivere in modo chiaro: rispettiamo gli animali? Anche le piante sono vita che genera la vita. E poi, cosa vuol dire: rispettiamo gli animali? Quali animali? Ci sono forse, da un punto di vista etico animali di seria A e di serie B e dilettanti non classificati? 

Uno scherzo da zoologo che sono solito fare quando incontro qualcuno che mi manifesta tutto il suo amore per gli animali. Propongo di mostrare il mio allevamento di ragni, stupendi… poi osservo il viso del mio interlocutore. Per rispettare degli animali si intendono di solito quelli da compagnia: gattini, cagnolini, cavalli al limite.

Ma i ragni o, magari, i serpenti, le cimici? Se una cimice mi entra in casa che faccio? Non la uccido forse?  Alcuni rispondono di no, inorriditi, ma poi acquistano antiparassitari per proteggere l’animale da compagnia… 

Nei miei tentativi di divulgazione tento di far cogliere quanto la bellezza della vita animale, delle piante, dei fiori, sia possibile contemplarla anche in città, anche nei nostri giardini. Chiunque abbia un pezzo di terra, un balcone, può dare un piccolo contributo a tutelare quella biodiversità che stiamo erodendo e che ci stiamo pian piano mangiando.

Alle volte vado in piazza con gli amici a manifestare e leggo cartelloni con su scritto: salviamo il pianeta! Ma il pianeta non ha bisogno di essere salvato, non siamo ancora così potenti da distruggerlo.  Lo siamo, invece, per distruggere noi stessi. Perché stiamo togliendo pian piano i pezzi della barca sulla quale galleggiamo…

Quando mi si chiede la ragione per la quale mi batto per tutelare quella farfalla o quell’orchidea, ad esempio, riprendo la metafora della barca. Immaginiamoci di essere in mare, in crociera, e vi accorgiamo che qualcuno comincia a smontare un pezzo della barca e lo butta dal parapetto.  

Non so a cosa serva, non mi pare sia utile, lo butto in mare”.  

Non sarebbe un atteggiamento cretino? 

Ecco, noi stiamo smontando tutti i pezzi di questa nave che ci ha portato dove siamo e facciamo estinguere pezzi di vita dei quali non conosciamo l’utilizzo. Ce ne accorgiamo nel tempo dei danni che abbiamo fatto, quando la nave va in avaria. 

In diverse città spuntano i cinghiali, abbiamo grosse difficoltà a gestire le cimici orientali. Se nelle nostre campagne avessimo mantenuto le raganelle, le upupe, le starne che viaggiavano sulla nostra stessa barca, avremmo molte cimici in meno, e via così». 

Qual è la storia di Nicola Bressi? Da quello che hai rivelato immaginiamo tu non sia un campagnolo. Il tuo accento tradisce la tua triestinità. Cosa sognavi di fare da ragazzino? Il calciatore, l’astronauta o lo zoologo? 

«Io sono cresciuto e vivo a Trieste, però sono anche orgogliosamente siciliano da parte di padre e la Sicilia ha costellato le mie le mie vacanze. Ho qualcosa di veneto, come te, qualcosa di austriaco, di sloveno, italiano, europeo e cittadino del mondo. Sono nato in periferia, in una bellissima periferia distante dal centro una corsa di autobus o una camminata di un’oretta.

A casa avevamo le galline, l’orto, alberi da frutta. Una periferia verde da esplorare. Quando molti miei amici giocavano coi soldatini e le macchinine, io stavo a guardare gli accoppiamenti dei lombrichi, le farfalle o trascorrevo ore a fare esperimenti per vedere come i ragni reagissero ai diversi tipi di insetti che cadevano nella loro tela». 

Quindi, se sei nato così, ti hanno disegnato in questo modo. Non è stata, la tua, una sensibilizzazione imposta, l’hai sentita dentro questa attenzione. 

«Esatto, non c’è nessuna e c’è nessuno in famiglia che fosse naturalista. Campagnoli, conoscenti della natura, cacciatori e pescatori tra i miei nonni… ma nemmeno un naturalista. Nessuno mi ha incoraggiato a fare questo percorso. Devo ringraziare i miei genitori che non mi hanno ostacolato. Non è stato facile per loro avere il primo laureato della famiglia zoologo. Avrebbero preferito un direttore di banca, un notaio, un avvocato anche. Scuotevano un poco la testa, rassegnati, ma nulla più». 

Nicola, tu sei stato anche direttore dei musei naturalistici di Trieste. Come reagisci all’evidente risveglio ecologista delle nuove generazioni che scendono in piazza? 

Siamo più o meno coetanei. Quando si andava alle scuole superiori, le motivazioni per scendere in piazza, per occupare le scuole, erano sicuramente meno importanti se posso dire. 

«Io ricordo solo prese di posizione politiche, partiti. I giovani di oggi e il loro impegno ecologico mi pare sicuramente positivo, anche perché è in controtendenza rispetto alla mia osservazione generale. Noto nei giovani contemporanei una certa mancanza di politica buona. Ho due figli adolescenti, li seguo a scuola, seguo i loro amici, ho sempre avuto tanti studenti, e ho notato una grossa difficoltà a schierarsi. 

Quasi non ci fosse nulla su cui impegnarsi al di fuori della scuola. Ho provato a dialogare con alcuni, ho chiesto cosa piacesse loro. Le risposte sono state molto evasive: mi piace ballare, viaggiare, stare con gli amici… Ok, penso sia normale, siamo vivi, ma un qualcosa in più sembra non esserci.  Dunque, il fatto che sia nato questo movimento dalla sensibilità ecologica, ritengo sia positivo. Credo si debba stare attenti a non cadere nella rete degli slogan facili, tanti slogan tendono a estremizzare i concetti. 

Un esempio: basta plastica. Chiaro che la plastica è un grandissimo problema. Però, la plastica salva anche vite con le siringhe, conserva molto più a lungo alimenti che andrebbero altrimenti sprecati.  

Quando ero un manager, facevo la spesa tardi, la sera, nei supermercati che rimanevano aperti. Come mai le verdure che erano rimaste senza plastica tutto il giorno, sullo scaffale, e com’erano, invece, quelle terribili verdure in buste di plastica? Quelle imbustate potevano essere vendute il giorno dopo, Le altre invece erano tutte da buttare. Ho condotto un progetto in una scuola. Abbiamo sperimentato la compostiera.

Ho chiesto a un piccolo supermercato di periferia di poter raccogliere la frutta e la verdura avariate e invendute. Siamo rimasti allibiti dalla quantità enorme di alimenti che un piccolo supermercato butta nella pattumiera ogni giorno. È chiaro che se queste derrate fresche vengono avvolte nella plastica durano molto più a lungo e si ha meno spreco, meno energia prodotta, eccetera. 

Certo, l’importante è che questa plastica venga prodotta con minore energia possibile, sia riciclata e che poi il suo smaltimento non venga disperso nell’ambiente… così per rimanere sul tema plastica». 

Mi dicevi che fai la spola tra l’ufficio e il laboratorio. Su quali ricerche stai impegnandoti in questo momento? 

«In realtà stiamo creando un allestimento di una sala, perché inaugureremo tra poco la nuova sezione di ornitologia del museo. Aggiungeremo degli esemplari mai esposti prima. 

Visitare un museo naturalistico, per alcune persone, può sembrare triste, addirittura macabro.  

Nessuno oggi si sogna di uccidere volatili e di impagliarli. Quelli che esporremo ci sono stati donati, oppure sono esemplari trovati morti sulla strada, o uccisi dai bracconieri. 

La maggior parte degli esemplari e stata catalogata nell’Ottocento quando non c’era alcuna sensibilità ambientale. Non ce n’era neppure bisogno, nel senso che gli animali non erano in via di estinzione. 

Quello museale era l’unico modo per farli conoscere alle persone che non sapevano né leggere né scrivere, non andavano a scuola e non viaggiavano. Paradossalmente siamo tornati indietro. Siamo talmente abituati al virtuale e a digitare sul cellulare che vedere qualcosa di vero ci sconvolge.  

Sai cosa mi stupisce? I ragazzini fino alla terza elementare, talvolta, non riescono a distinguere la differenza tra l’aggettivo vivo e l’aggettivo vero. Mi dicono: ma questo è vivo? Se non è vivo, non è vero. Ciò che per la nostra generazione era ovvio, diventa ora difficile da capire, il reale e il virtuale si intersecano creando confusione, un nuovo analfabetismo bio».  

Grazie a Nicola Bressi. Io continuo a seguirti su Twitter. 

Di seguito il podcast della nostra chiacchierata con il Professor Nicola Bressi.

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