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Vita & Salute WEB dialoga con Alberto Ritieni, Professore di chimica degli alimenti all’Università Federico II Napoli. Già Membro del Comitato Tecnico per la Nutrizione e la Sanità Animale del Ministero della Salute
Prof. Ritieni esiste davvero l’integrale col trucco?
«Negli ultimi anni i consumatori hanno aumentato sempre più la richiesta di prodotti salutistici per raggiungere e per mantenere un migliore stato di benessere. Questo cambiamento ha condotto all’offerta di un numero sempre maggiore di prodotti integrali. Perché è ormai noto a tutti che sono dal punto di vista salutistico migliori dei prodotti iper-raffinati.
La parola “trucco” non è del tutto corretta, dal punto di vista regolamentare. Ma ricordiamo, che la vecchia legislazione – in vigore dal 1967 al 2001 (n. 580 del 4 luglio 1967) – parlava di pasta ottenuta da semola raffinata di grano duro, proteggendo così un gioiello del Made in Italy dall’invasione delle produzioni straniere. In maniera indiretta tutto ciò non permetteva di parlare di pasta integrale.
La soluzione era quella di usare semola raffinata e aggiungere della crusca o del cruschello, sottoprodotti della raffinazione della farina. Creando così una pasta dietetica tipo integrale, ovvero destinata alle diete speciali. L’eccezione era possibile solo per i produttori biologici che usavano semola integrale anziché raffinata.
Nel 2001 la nuova legislazione (n.187 del 9 febbraio 2001) ha consentito l’uso di semola integrale prodotta a partire dalla macinazione del chicco intero. Ma i costi produttivi sono ancora da considerarsi un ostacolo per una produzione di vera semola integrale. Per molti, è ancora conveniente aggiungere alla semola raffinata della crusca.
Ricordiamo che la crusca rappresenta circa il 16% del chicco, il quale per l’80% è formato da amidi semplici. Questo sottoprodotto della farina, se aggiunto alla semola, ne permette una valorizzazione in termini economici e di appeal da parte del consumatore. Ciò permette di recuperare marginalità. Considerando che il consumatore attento è disposto a spendere di più per i prodotti integrali che riflettono una minore richiesta del mercato. Il valore nutrizionale di questa aggiunta, però, rispetto all’uso del chicco intero non è del tutto identico».
Ma la legge vigente cosa prevede?
«L’attuale legislazione n.187 del 9 febbraio 2001 purtroppo non distingue un prodotto raffinato a cui viene aggiunta crusca o cruschello da uno che contiene della farina integrale. La legge si basa sul valore delle ceneri, che deve essere compreso tra 1,3 e 1,7% della sostanza secca per parlare di farina integrale. Indipendentemente se si macina l’intero chicco o si ricomponga il tutto nel prodotto finito.
Per concludere, occorre dire che l’uso in un prodotto di una farina integrale o della crusca mista a farina raffinata deve essere ben chiara al consumatore. Con l’indicazione, ad esempio, di “pane con farina di tipo integrale” e in questo caso non si parla di frode, e se il valore della farina integrale supera il 51% per poter parlare di prodotto integrale».
È possibile essere vittime di una pubblicità ingannevole?
«Alcuni produttori hanno scelto di utilizzare una modalità di comunicazione verso i consumatori che lascia loro un margine più ampio di interpretazione di ciò che viene indicato e inserito in etichetta. In altre parole, i termini come prodotti “multicereali”, oppure ottenuti con “cereali integrali”, sono certamente di grande appeal per i consumatori oggi più attenti alla salute e alla prevenzione. Ma non sono sinonimo di prodotti veramente integrali, ovvero ottenuti dalla lavorazione del chicco intero.
I prodotti che chi compra interpreta come integrali trovano una ragione di scelta nella loro funzione salutistica dimostrata e consolidata da vari studi clinici. Questo fa sì che il marketing adottato da alcuni produttori sia più aggressivo e spinga su quel margine di interpretazione del consumatore finale inducendolo a fare delle scelte guidate».
Prof Ritieni, come si legge l’etichetta del prodotto?
«Quanto detto fin qui sembra non lasciare delle difese efficaci per chi voglia utilizzare prodotti integrali. Ma il punto debole per comprendere meglio quello che si acquista è proprio nella lettura attenta dell’etichetta del prodotto.
L’etichetta è un vero e proprio contratto che si stipula tra consumatore/acquirente e produttore. Fatti salvi i casi dolosi, ogni dichiarazione in etichetta va considerata come una promessa fatta e da mantenere da parte del produttore.
Le diciture presenti in etichetta di “farina integrale”, oppure di “100% integrale”, rassicurano che ci sia realmente la presenza delle fibre. L’ordine in cui gli ingredienti sono elencati nell’etichetta del prodotto è ancora un ulteriore aiuto per l’acquirente.
Infatti, il primo ingrediente della lista è sempre quello maggiormente presente in quantità. Per cui se il termine integrale si trova in fondo alla lista occorre valutare come probabilmente questo prodotto non integrale. Occorre che almeno il 51% del prodotto contenga tutte le tre parti del chicco: crusca, endosperma (compresa la parte dell’amido) e del germe. Tutti i termini integrali utilizzati per indurre l’acquisto non si possono riferire ai casi di farina raffinata a cui viene aggiunta crusca e cruschello.
Questi tipi di prodotti, definibili come ibridi, non sono integrali pur trovando sulla confezione termini come ai “cinque cereali”, “pane macinato a pietra”, oppure semplicemente “pane multicereali”.
La lettura della lista degli ingredienti e dell’etichetta è un passo importante per scegliere un prodotto integrale vero, ottenuto dalla trasformazione del chicco intero, ad esempio, di frumento o di avena o di un diverso cereale».
Come si riconosce il vero prodotto integrale?
«Il primo segnale che il consumatore tende a valutare è il colore del prodotto. È chiaro a tutti che più la farina è raffinata più il suo colore tenderà al bianco.
Al contrario, un prodotto integrale assume un colore scuro dovuto alla presenza della crusca e delle parti più esterne del chicco di frumento, che lo rendono chiaramente differente dal prodotto raffinato. Purtroppo, l’occhio è facilmente ingannabile da una colorazione aggiunta mediante l’uso della melassa o del caramello. Ambedue i casi, non parliamo di prodotti pericolosi, permettono di scurire la farina quel tanto che serve a valutare agli occhi del consumatore il prodotto come integrale.
Se viene anche aggiunta della crusca alla farina raffinata si raggiunge lo scopo di colorare di scuro il prodotto rendendolo integrale alla nostra vista. Anche in questo caso il nostro occhio viene ingannato e valutiamo il prodotto per quello che non è in realtà.
Un piccolo aiuto può provenire dalla mollica, il cui colore deve essere uniforme e scuro, questo ci rassicura sul 100% di farina integrale. Al contrario, una disomogeneità dimostra che c’è stato un rimescolamento della crusca con della farina raffinata.
Ricordiamo infine che una farina integrale contiene anche il germe, ovvero la parte del chicco più importante ma anche più facilmente ossidabile. Per cui i prodotti integrali sono soggetti a una scadenza più breve per evitare difetti nel gusto e nel loro contenuto nutrizionale. Se viene aggiunta solo crusca o cruschello, ma non il germe, questo problema non può sussistere e le scadenze tornano simili tra il prodotto raffinato e quello con l’aggiunta successiva di crusca».
Quali vantaggi si possono riscontrare nell’alimentazione che predilige l’integrale?
«I vantaggi delle fibre sul nostro stato di benessere, nonché sulla loro provata funzione preventiva, sono da considerarsi consolidati a livello scientifico. E, grazie alla lunga campagna di informazione, anche a livello di divulgazione tra i consumatori.
Un prodotto a base di farina raffinata non ha oltre l’1,5% di fibre; valore che si quadruplica nei prodotti integrali. Considerando che le indicazioni dei Larn (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti) parlano di circa 20 grammi al giorno di fibre da assumere, la possibilità di introdurre nella dieta dei prodotti integrali fornisce un vantaggio non secondario alla nostra salute sia per i loro effetti diretti che indiretti.
Nella dieta sana ed equilibrata è noto che devono avere un ruolo preminente frutta, verdura e i prodotti integrali che contengono fibre alimentari. Fibre che non siamo capaci di digerire completamente a livello intestinale, del resto non siamo erbivori e il nostro intestino si è evoluto in una direzione diversa.
Quel che è certo è che il rischio di sviluppare delle forme tumorali a livello del colon è tanto più basso quanto più ci si avvicina alla quota di fibre ideali di 20-25 grammi al giorno.
Inoltre, i prodotti integrali hanno un indice glicemico minore di circa un terzo rispetto a quelli dei prodotti più raffinati a base di farina 00.
Questo si traduce in un minore stress. Perché i picchi glicemici sono meno impattanti e il sistema pancreas-glicemia risponde meglio con ricadute positive sia con un minore rischio di sviluppare diabete che forme di obesità.
Il meccanismo positivo delle fibre ricorda per alcune di esse l’effetto “mocio”. Ovvero un modo per inglobare, nascondere, mascherare in una massa poco digeribile parte dei nutrienti e non. In altre parole, questo “mocio” formato dalle fibre insolubili attraversa l’intestino senza che ci sia un rilascio di zuccheri troppo repentino, senza che ci sia un completo assorbimento dei nutrienti.
A questo effetto si aggiunge anche quello di fare da meccanismo di pulizia del tratto intestinale e come i sistemi “cattura polvere” si ripulisce l’intestino da molecole indesiderate o dagli scarti metabolici. Nel caso delle fibre digeribili, invece, si produce da esse, fermentandole, il carburante migliore perché il nostro microbiota dando vita ai grassi a catena corta.
Questi grassi come l’acido propionico o il butirrico sono a loro volta protettivi per il nostro organismo. E il tutto migliora ulteriormente la risposta insulinica e riducendo il rischio di obesità, diabete 2 e patologie cardiovascolari.
Per concludere, ricordiamo che gli effetti benefici della fibra solubile o insolubile sono inferiori se è stata aggiunta come crusca o cruschello. Mentre il loro vero valore è nel legame che c’è fra le fibre e l’alimento per cui è il prodotto integrale, ottenuto con la macinazione del chicco intero, a dare ciò che ci serve per stare meglio».
Ci possono essere anche dei limiti oltre i quali i prodotti integrali possono essere dannosi per la salute?
«Il maggiore consumo di fibre, e di conseguenza di prodotti integrali, è da sempre considerato un valore salutistico. Tutti hanno chiaro l’assioma che le fibre fanno bene, che l’attuale società sedentaria rende pigro il nostro intestino e che più fibre è sinonimo di salute.
Consumare frutta, vegetali ci permette di avere vitamine, ma anche fibre solubili positive. Ed è ancora più facile comprendere come gli alimenti integrali con il loro contributo in fibre partecipino a rafforzare questa strategia positiva per il nostro organismo.
Potremmo dire allora passiamo tutti a un consumo di prodotti integrali “tout court”. E i produttori davanti a una domanda così ampia dovrebbero ridurre di conseguenza i costi al dettaglio di questi alimenti integrali e superare le difficoltà che ci sono nella trasformazione delle farine integrali. I latini ci ricordano come sempre che “in media stat virtus” in altre parole il troppo stroppia.
Se tutto fosse integrale avremmo qualche difficoltà nell’assorbimento. Ma soprattutto per le persone che soffrono di forme di colon irritabile, questo eccesso di fibre risulterebbe in una continua sollecitazione della mucosa intestinale con risultati non ideali.
Un eccesso di fibre solubili può portare a forme anche di costipazione. Mentre introdurre troppe fibre insolubili porta a leggere forme di diarrea. Ma ci sono anche da registrare fenomeni di gonfiore intestinale dovuto al superlavoro dei batteri della microflora che smaltiscono le fibre in arrivo.
Insomma, i prodotti integrali e le fibre che contengono sono un toccasana. Ma ogni età, ogni organismo, ogni stile di vita richiede il giusto contributo di fibre e di alimenti integrali per cui si parla di dieta equilibrata e se c’è un qualcosa di eternamente dinamico e che sempre si modifica è proprio l’equilibrio».
Quale la sua opinione sui grani antichi?
«Molti conoscono il grano Senatore Cappelli, il grano Khorasan ecc. E tutti hanno associato questi grani a un’intrinseca qualità dovuta alla loro rustichezza, al loro essere tali perché poco manipolati dall’uomo ed essere praticamente identici ai grani cosiddetti antichi.
Parlando del Senatore Cappelli, è un grano duro che si ottiene per incrocio tra varietà come la tunisina e il Rieti, un grano antico che nasce all’inizio del ‘900 è relativamente antico.
È comunque un grano duro che fornì allora le necessarie risorse alimentari per l’Italia unita che cresceva e che non allettandosi, ovvero piegandosi sul terreno, permetteva di avere raccolti migliori.
Da allora è considerato il padre naturale dei grani duri italiani attuali. Il Khorasan è noto sin dal Medioevo come grano Saragolla, ma che ha la fortuna di essere stato portato negli USA dopo la Seconda guerra mondiale da un soldato di ritorno dall’Egitto, fu riscoperto negli anni ’80 per diventare il famoso Kamut di cui tutti siamo innamorati e il cui brand è più conosciuto della varietà stessa.
Se parliamo di grani antichi allora dobbiamo parlare di Farro, il cereale dell’antica Roma, del Timilia che è prodotto in Sicilia oggi ma che deriva da grani dell’antica Grecia. La scelta di questi grani, che furono abbandonati perché poco produttivi in campo come rese, oggi per molti è collegato a un senso di rusticità maggiore, ad una trasformazione con i mulini a pietra e quindi una minore raffinazione, ad un glutine secondo alcuni meno impattante e che renderebbe più digeribili i prodotti trasformati che ne derivano.
Il preferirli può avere varie basi. Sicuramente la conservazione della biodiversità è un valore positivo, avere grani meno stressati per ottenere varietà più produttive e più tecnologicamente utili può essere un approccio positivo.
La verità è che questi grani sono stati selezionati come quelli moderni, con tecniche e tempi diversi. Non contengono meno glutine dei grani attuali. E’ ancora discutibile la loro azione meno impattante sulle allergie o sulla loro capacità di proteggere da alcune patologie come diabete 2 oppure le cardio-vascolari.
Di solito, chi produce grani antichi utilizza meno agenti chimici. Usa tecnologie meno moderne di trasformazione, ha più rispetto dell’ambiente e vede in queste coltivazioni un modo per salvaguardare il pianeta.
Purtroppo, sull’onda di questi condivisibili punti di vista, alcuni produttori inducono verso il consumo di grani antichi che danno loro maggiori marginalità per la maggiore disponibilità di spesa da parte di alcuni consumatori più sensibili a determinate tematiche ambientali, storiche, nutrizionali e salutistiche».