Chiara Cruciati, questo non è uno studio televisivo. Non è una trasmissione radiofonica e non è la redazione di un quotidiano dalle migliaia di tirature quotidiane. La nostra rivista è un progetto multimediale in divenire. Ha l’ambizione di raccontare storie di vita con le prime parole, senza filtro, schemi o copioni. Onorati di averti come ospite in questo numero che abbiamo voluto dedicare alle donne.
Fragili o forti, sotto i riflettori o dietro le quinte, in prima o in ultima linea, non ci interessa, perché non rincorriamo alcun cliché; ci nutriamo di testimonianze ed esempi di vita, personali e professionali, e lo vogliamo fare al femminile. Ti conosciamo, leggiamo e seguiamo da anni. Sei una giornalista più di strada che di scrivania, questo ci piace e desideriamo presentarti ai tanti amici che ci leggono. Entrando un pochino nel tuo mondo.
Ecco, in che mondo stai vivendo? Ti chiederei di usare tutti e cinque i sensi per descrivere dove ti trovi oggi, in questo momento. Metaforicamente parlando, si intende. E ti chiederei di dirci se è sempre stato così o se le cose sono cambiate (e come) nel tempo.
«Dopo tanto tempo all’estero, avevo bisogno di una maggiore stabilità, utile anche a far sedimentare quanto vissuto negli ultimi anni. Per questo sono tornata a fare base in Italia, a Roma, dove lavoro. Ho scelto un quartiere, Torpignattara, che si addice molto alle mie origini umbre e alle mie “misure”.
Un quartiere che sembra un paesino, con le case basse che si mescolano alle palazzine più alte, multietnico, con tanti murales colorati e pietre di inciampo a memoria dei partigiani che qui hanno combattuto, con i mini-negozi di alimentari, di frutta e verdura, il mercato dei contadini, il forno italiano e quello arabo.
Una dimensione umana in una città immensa. Un quartiere in cui è piacevole passeggiare, per strada senti lingue diverse e odori di cibi da tante parti del mondo. È normale camminare e sentirti arrivare nelle narici l’aroma di ragù e poco dopo quello di una salsa indiana. Oppure prendere un caffè al bar sotto casa. Tra gli anziani romani che giocano a carte e bengalesi, egiziani, marocchini che si incontrano con le famiglie.
Non nego che a volte di questa decisione, il ritorno in Italia, mi pento. Mi manca molto la vita dentro una società altra dalla mia ma che dà stimoli continui. Per questo – negli ultimi due anni molto di meno a causa della pandemia – viaggio in Medio Oriente. Per lavoro ma anche perché è una dimensione in cui mi sento a casa. È strano, a volte destabilizzante, andare di luogo in luogo in cerca di una “casa”. Ma credo che il periodo all’estero mi abbiamo lasciato un bellissimo regalo. Avere tanti luoghi in cui sentirmi bene, accolta, in cui ritrovare le mie piccole comunità di persone».
Dai banchi dell’Università di Perugia ai territori occupati della Palestina. Ma come ci sei arrivata? Hai fatto girare a caso un mappamondo fermandolo ad occhi chiusi? Cosa hai visto in quegli anni, fin dove ti sei spinta? Sei stata tu ad entrare in quei luoghi, in quelle persone, in quel pezzo di storia, o piuttosto il contrario? Quali sono i segni che raccontano i tuoi primi passi da cronista? Quaggiù come si può comprendere la Palestina?
«Con quel mappamondo da girare ci sono cresciuta accanto. Era quello immaginario dei miei genitori che fin da piccola mi hanno narrato di due paesi e due popoli che sentivano molto vicini. Il Cile di Salvador Allende e la Palestina. Mia madre in particolare ne era molto legata. Mi ha sempre raccontato delle prime sue manifestazioni in solidarietà con i cileni, degli scontri in piazza in Italia con i fascisti che sostenevano Pinochet. E poi la Palestina, che negli anni Settanta era al centro della narrazione e della pratica anticoloniale della sinistra mondiale.
Per molti anni ho seguito la questione palestinese da lontano. Poi ho tentato altre latitudini, ho vissuto per qualche mese negli Stati uniti e poi in Libia. Ma appena ne ho avuto la possibilità sono partita per la Palestina. Era l’inizio del 2011, un periodo di trasformazione per il Medio Oriente, con i fuochi delle rivoluzioni che si accendevano ovunque.
La cosa migliore che mi potesse capitare, quando sono arrivata in Palestina, sono state le parole di Nassar Ibrahim, il direttore dell’Aic, l’ong per cui facevo la volontaria. Mi disse: ci aiuti di più se capisci i palestinesi. Per questo, invece di tenermi in ufficio, mi ha detto di usare i primi mesi per girare il più possibile. Per parlare con la gente, per vedere i luoghi e anche per smontare quello che credevo di sapere, le mie convinzioni radicate dalla distanza.
Perché nulla più delle contraddizioni rendono un popolo davvero accessibile. Saper gestire quelle contraddizioni, saperle raccontare, è quello che rende più credibile il mio lavoro di giornalista ma anche il mio approccio politico.
Quel tempo regalato l’ho investito, l’ho trasformato in sei anni di vita, quelli trascorsi là. Sono stati anni bellissimi, profondi, a loro modo felici. Anni in cui si è riaccesa in me molta della passione politica che avevo e la voglia di raccontare. Di entrare in vite altrui per rendere la mia più ricca, come succede quando guardi un film o leggi un libro. Ma in questo caso, quelle vite sono reali e hanno un effetto profondo su chi le osserva. Il dolore e il senso di impotenza di fronte a ingiustizie quotidiane è come la goccia che cade da un rubinetto difettoso.
È continua, quasi insopportabile. Mi sono sempre detta che sarei andata via da là quando mi fossi abituata a quelle ingiustizie. Ad accettare le file interminabili ai checkpoint militari israeliani o a pensare che fosse normale l’ennesimo arresto di un amico o un conoscente. Oppure la demolizione di una casa palestinese. Non mi sono abituata mai. Quegli anni mi hanno cambiato, mi hanno aperto le porte del Medio Oriente – da lì ho raggiunto l’Iraq, la Turchia, la Giordania, l’Egitto, la Siria. Sono io a dover essere riconoscente alla Palestina. Pur non avendo dato quasi nulla in cambio se non la voglia di raccontarla nel modo più oggettivo possibile.
Questo è quello che va fatto. Io sono una giornalista, non un’attivista. Racconto quel che vedo, quel che accade, riporto le voci di chi altrimenti non sarebbe ascoltato. Penso basti questo a mostrare la situazione reale, al di là di qualsiasi propaganda. Non serve gonfiare la sofferenza, esiste già, basta darle voce. È l’atto più politico che c’è».
Hai una sola possibilità, un solo nome da farci. Una persona che hai incontrato in Medio Oriente, con la sua storia (che forse hai raccontato o che ancora stai tenendo solo per te). Chi è, e come ti ha cambiata?
«Banale dire che di persone da ricordare ce ne sarebbero molte. Ma scelgo un anziano contadino palestinese del villaggio di Hussan, vicino Betlemme. Un uomo molto semplice. Lo incontrai poco dopo il mio arrivo, il 30 marzo 2011, e forse anche per questo mi è rimasto sempre in testa. Quel giorno i palestinesi celebrano la Giornata della Terra. La commemorazione dell’uccisione di sei giovani in Galilea nel 1976 per mano dell’esercito israeliano mentre difendevano le loro terre dalla confisca.
Di solito in quel giorno moltissimi palestinesi li ricordano piantando ulivi. Io andai ad Hussan, nel campo di una giovane donna, Shireen, e della sua famiglia. Un fratello in prigione, il Muro di Separazione che corre vicino casa, terre spesso rese inaccessibili dai soldati o dai coloni israeliani. Accanto a Hussan c’è una colonia israeliana, molte delle terre palestinesi del villaggio sono state occupate a favore dell’insediamento. Una storia come tantissime altre, in Palestina.
Shireen mi presentò suo padre, capelli e barba bianca, magro, con le mani nodose. Era intento a piantare piccoli ulivi nel suo campo circondato dal filo spinato. Sotto lo sguardo dell’esercito israeliano, lì con le jeep e le armi automatiche. Mentre lui lavorava, gli ho chiesto quanto tempo avrebbero impiegato quegli ulivi a dare i primi frutti. Rispose che per avere delle olive buone si doveva pazientare, almeno una decina di anni.
Ma che quei piccoli ulivi non ne avrebbero dati. Perché ogni volta che ne piantava di nuovi i coloni arrivavano sulla sua terra e li sradicavano. A bocca aperta, gli ho fatto la domanda più stupida: “E allora perché continua a piantarli?”. L’anziano mi ha guardato e mi ha detto: “Questa è la mia terra e continuerò a piantare ulivi anche se non vedrò mai un’oliva. Questo è il mio modo per restare”. È stato come se mi avesse dato uno schiaffo. Custodisco quel racconto come uno dei più preziosi. Nella sua estrema semplicità, mi ha mostrato quella resistenza quotidiana, ma invisibile, che mi aveva spinto lì».
Hai scritto anche dei libri, Chiara, oltre a tanti articoli di cronaca e inchiesta. Per quotidiani, agenzie e blog. Quali sono state le tappe della tua vita professionale? Riesci a descriverci in poche parole in che modo, ognuna di queste ti ha formata, nel lavoro ma anche a livello personale?
«Al giornalismo sono arrivata “tardi”, dopo l’università. Ho iniziato come stagista al Corriere nazionale dove sono rimasta fino alla partenza per la Palestina. Da lì è cominciata la mia vita da freelance con tutte le difficoltà che porta con sé. Con l’indifferenza dei grandi media, retribuzioni affatto dignitose, precarietà assoluta. Un’esperienza che di sicuro ti forma. Ci sono moltissimi giornalisti e giornaliste freelance in Italia, bravissimi, che non vengono pagati quanto meriterebbe il loro lavoro, l’ipocrisia in merito è enorme.
Dentro e fuori le redazioni. Io ho avuto la fortuna di approdare a un giornale, Il Manifesto, che mi ha sempre trattato con estrema dignità, alla pari. Quando, dopo anni da collaboratrice esterna dal Medio Oriente, sono entrata nella redazione di Roma, ho trovato un ambiente per nulla gerarchico. Fin da subito ho potuto dire la mia, fare le mie proposte, muovere idee, suggestioni, critiche. E poi mi sono ritrovata in quella che tutti ritengono essere la migliore sezione Esteri d’Italia. Tanti maestri, tanti stimoli e la capacità di raccontare letteralmente ogni angolo di mondo con una visione politica ben definita ma anche professionale.
Accanto a questo ho deciso di mantenere viva, nonostante le enormi difficoltà, l’agenzia stampa Nena News in cui lavoro da volontaria da undici anni. So che è considerata da molti un rifugio sicuro. Per questo cui continuiamo a tenerla in vita nonostante il numero piccolissimo di redattori, la carenza di tempo da dedicargli e l’assenza totale di finanziamenti».
Il Manifesto! Ti hanno mandata in guerra, in mezzo alle donne della resistenza curda. Caspita!! Avessimo avuto la possibilità di essere lì con te, di vivere per alcuni giorni al loro fianco, di ascoltare le loro storie. Usa tutte le parole di cui hai bisogno per collegarci a loro. Facci camminare qualche minuto tra quelle montagne, aprici gli occhi e scrollaci. Come ha fatto il mondo a girarsi dall’altra parte?
«La cosa che colpisce immediatamente in quei luoghi, nel Rojava ma anche a Shengal (nella comunità ezida irachena che ha riprodotto in questi anni il sistema del confederalismo democratico), è il tipo di persone che lo stanno realizzando. Sia sul piano politico che su quello militare dell’autodifesa.
Non sono politici o soldati di professione. A tutti quelli e quelle che ho conosciuto ho posto la stessa domanda. Cosa facevi prima di entrare nelle unità di autodifesa, di combattere a Kobane o a Raqqa. E anche le risposte non si discostano le une dalle altre. Chi insegnava, chi studiava ingegneria o filosofia, chi era operaio o contadino, chi sognava di fare il professore in una scuola. Un orizzonte umano di civili, di partigiani e partigiane esattamente come quelli italiani che vinsero il nazi-fascismo.
Persone che all’improvviso si sono ritrovate coinvolte in una guerra e in una rivoluzione e hanno scelto. Passare del tempo in una casa delle combattenti curde delle Ypj mi ha ridato indietro questa dimensione. Giardini curati, libri di filosofia, chitarre e liuti, una grande allegria e allo stesso tempo un’enorme consapevolezza politica maturata in tempi relativamente brevi.
E intanto intorno continua il conflitto. Il Rojava è sono sotto assedio. Ci sono scontri continui, attacchi dell’Isis e l’occupazione militare turca. Mi hanno portato sulla linea del fronte, a poca distanza dalle milizie islamiste. Ho visitato i campi profughi dove vivono le famiglie fuggite dalle zone occupate dalla Turchia nel 2019. Hanno fatto tutto da sé, hanno tirato sui campi e hanno ricostituito lo stesso sistema di autogestione che avevano sperimentato nelle loro città, la prova più significativa di quanto il confederalismo democratico sia stato assorbito.
Anche a Shengal, in Iraq, l’isolamento è contemporaneamente politico e fisico. Arrivarci è stato molto complesso. Superare i checkpoint militari controllati da varie milizie, di diversa estrazione politica e opposta fedeltà a forze esterne, ha richiesto giorni.
Shengal è stato un viaggio nel dolore. Tra le macerie dei villaggi bombardati e le case un tempo occupate dall’Isis dove venivano tenute prigioniere le donne prima di essere vendute ai mercati delle schiave. Dall’altra parte c’è un popolo abituato alla marginalizzazione che si sta lentamente rimettendo in piedi grazie a una precisa filosofia politica, è molto affascinante».
Immagino, forse sbagliando (dimmelo te), che il tuo essere donna, in alcuni dei posti che hai raccontato, possa essere stato difficile. Se sì, come ne sei uscita? Nell’esercitare la tua professione hai incontrato disparità, difficoltà, pregiudizi? Quanta strada c’è ancora da fare, anche in Italia, nel modo dell’informazione, ma più in generale nel mondo del lavoro, per colmare diseguaglianze di genere?
«In realtà in Medio Oriente non mi sono sentita limitata in quanto donna. Non ho avuto problemi a girare da sola o vissuto momenti in cui mi sono sentita in pericolo per il mio genere. Le porte mi sono sempre state aperte. Ho avuto modo di intervistare persone di ogni tipo, contadini, pastori, combattenti, ministri, artisti senza sentire un pregiudizio nei miei confronti.
Ovviamente, diverso è il clima dentro le società che ho attraversato, dove il sistema patriarcale è ancora strutturale. Sul piano economico, sociale, di opportunità di lavoro. Anche qui le contraddizioni non mancano. Da una parte, dalla Palestina alla Siria, ho potuto osservare e sperimentare il ruolo centrale che hanno le donne nella resistenza, sul piano collettivo, e dentro le famiglie, su quello individuale. Dall’altra esistono ancora limiti significativi alla loro realizzazione personale.
Si tratta di contraddizioni che, su livelli ovviamente diversi, viviamo anche da noi, in Europa. Il patriarcato è ovunque, è strutturale al sistema capitalista e a quello sociale. Anche nel mondo dell’informazione, dove le giornaliste – spesso le più “radicali” nel loro lavoro, non a caso sono la maggior parte delle inviate e le corrispondenti dall’estero, soprattutto nelle zone di guerra, fateci caso – sono ancora considerate, in modo più o meno sottile, inferiori nelle competenze ai colleghi uomini. Assistiamo spesso a un atteggiamento discriminatorio dal punto di vista salariale che si accompagna a intollerabili comportamenti paternalistici».
Salutiamoci con alcune anticipazioni rispetto a ciò a cui stai lavorando oggi. Dove potremo leggerti e soprattutto cosa ci puoi lasciare da approfondire sul lavoro che hai fatto in questi anni, sulle storie che ci hai raccontato?
«A primavera partirò di nuovo per l’Iraq, uno dei luoghi che più mi ha affascinato. Per un progetto di lungo periodo sulla regione ezida di Shengal da realizzare insieme a una compagna di viaggio con cui ho già condiviso l’esperienza dello scorso anno nello stesso luogo.
Vorremmo poter accendere una luce su un popolo antico e misterioso. Conosciuto solo per il terribile massacro compiuto dall’Isis nel 2014, ma dal quale si è rialzato dando vita a un’esperienza politica di autogestione e autonomia che riprende quella del confederalismo democratico del Rojava.
Per il resto io ho la fortuna e la sfortuna di raccontare un pezzo di mondo, il Medio Oriente, con cui di certo non ci si annoia. Il consiglio di approfondimento che vorrei darvi è doppio. Prima di tutto, informatevi su quanto continua ad accadere in paesi come la Palestina, la Siria, l’Iraq, lo Yeme. Perché sono tuttora preda di interessi globali che tagliano fuori i popoli e le loro legittime aspirazioni.
Ma se davvero volete capirne di più, non limitatevi alle notizie di attualità. Approfondite con i romanzi, la musica, i fumetti, i film che quella parte del mondo sta producendo a ritmi impressionanti in questi anni. L’ultimo decennio ha visto l’esplosione di generazioni di artisti giovani.
Con un modo di raccontare se stessi e le proprie collettività molto diverso rispetto al passato. Sono estremamente moderni, ma allo stesso tempo sanno ridare indietro le proprie terre di origine e le loro contraddizioni. Leggete i loro romanzi (ormai in tantissimi sono tradotti in italiano), ascoltate la loro musica, troverete uno scrigno di tesori.
Qualche nome tra letteratura e musica. Le scrittrici palestinesi Adania Shibli e Ibtisam Azem e gli iracheni Ahmad Saadawi e Usama al-Shahmani, la fumettista libanese Lena Merhej, il romanziere turco Ahmet Altan, i musicisti libanesi Mashrou Leila o i palestinesi 47 Soul e Dam».
Grazie Chiara, saremo con te in ogni tua prossima sfida.
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