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Spiritualità nella cura 

Un medico e un pastore d’anime dell’Istituto Tumori di Milano alla ricerca della cura

V&S WEB dialoga con Carlo Alfredo Clerici, Medico chirurgo, specialista in psicologia clinica – psicoterapeuta, Professore associato di psicologia clinica, Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia Università degli Studi di Milano  

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Speranza in reparto 

Dottor Clerici, il titolo del suo ultimo lavoro a 4 mani mi ha colpito molto. La spiritualità nella cura. Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale edito da San Paolo. 

Com’è nata la volontà, il desiderio di scrivere assieme a Tullio Proserpio questo volume? 

«Io lavoro da molti anni, dal 1998, all’Istituto dei Tumori di Milano e Tullio Proserpio è da 19 anni Cappellano di questa struttura. Devo dire che, dopo un iniziale periodo di incontro ma anche di assoluta poca confidenza – visto che trattiamo temi in apparenza distanti e proveniamo da una formazione diversa – abbiamo cominciato a ragionare attorno alle questioni poste dall’assistenza ai nostri pazienti.

Io lavoro in pediatria, nel reparto diretto alla dottoressa Massimino, pediatria oncologica, in cui si curano bambini con malattie gravi. I temi del senso delle cose, del senso dell’esistenza, sono naturalmente aspetti che accompagnano la lotta biologica ed esistenziale. Per cui è stato molto interessante, per me, trovare un sacerdote che non avesse un intento di propaganda di una fede piuttosto che di un’altra, ma una volontà di collaborazione, per trovare un linguaggio comune.

Don Tullio era stato voluto in quel ruolo dal cardinale Martini, che a Milano è stata una figura estremamente importante per la sua capacità di unire la cittadinanza anche in momenti storici dove imperversava il conflitto. ‘La cattedra dei non credenti’ a Milano, quando imperversava il terrorismo, convocava alla Statale per discutere sui grandi temi dell’esistenza laici, religiosi e non religiosi, avendo questi temi come punto d’incontro. In questa tradizione si inserisce il compito di don Tullio e quindi i primi dialoghi tra di noi». 

Cura 

Nella mia tesi di laurea magistrale sull’Unzione degli infermi, ho voluto inserire una citazione che suonava più o meno così: non tutte le malattie sono guaribili, ma tutte sono curabili… Come suona alle sue orecchie? 

«Questo è un principio con cui la medicina deve fare i conti in modo sempre crescente. Perché, nonostante i progressi tecnologici e malgrado molte malattie abbiano guarigioni crescenti, il fatto che la natura umana rimanga mortale è una caratteristica con cui dobbiamo fare i conti e da qui non ci riparano certi aspetti promettenti ma illusori della tecnologia.

In più, questo pensiero che lei ha citato nasce anche all’interno del movimento per le cure palliative. In Inghilterra, negli anni 60, è apparso evidente che i pazienti non più guaribili avevano comunque necessità fuori dall’ordinario, che dovevano essere ascoltati.

Tutto il pensiero della Saunders e dell’istituzione degli hospice deriva proprio da questa impostazione. Fino a qualche anno fa, le cure palliative non erano considerate una disciplina specialistica nella formazione medica. Adesso, man mano, si inizia a pensare che anche la fase terminale di pazienti con malattie gravi abbia bisogno di un investimento scientifico, culturale, assistenziale, che deve essere per forza di alto livello, altrimenti i pazienti sono abbandonati.

Questo assioma è un punto di incontro fra chi pensa che l’essere umano sia sacro e chi pensa che, comunque, l’essere umano, la nostra umanità sia la cosa più importante che dobbiamo custodire, anche da una prospettiva laica. E questo credo che sia un punto in cui è possibile sospendere il pregiudizio, gli aspetti confessionali magari opposti e trovare un terreno di lavoro comune. Per noi è andata così».  

Se ti piace questo articolo leggi anche l’intervista al Dott. Sorriso

Un essere speciale 

L’essere umano non è una macchina da portare dall’elettrauto per essere riparata dallo specialista. Secondo lei, ogni creatura è speciale? 

«Dipende dall’angolazione di osservazione. Perché può essere speciale in quanto creatura di Dio, oppure esserlo nella sua effimera singolarità che costituisce comunque un evento straordinario e anche un po’ miracoloso, perché  

la complessità, la varietà e la creatività dell’essere umano dimostrata anche nella capacità di soffrire è veramente qualche cosa che sfugge alle coordinate unicamente logico-razionali. Tanto è vero che abbiamo, ad esempio, bisogno delle arti per riuscire a descrivere che cosa sia un’esistenza umana.  

Il modello biologico non è assolutamente in contrasto con altri. Il punto semmai è se il modello biologico rimane soltanto tale, regolato da fattori economici, in modo cieco, e se produca davvero una cura antropologica. La sfida oggi non è quella di contrastare, piuttosto entrare all’interno di una dialettica in cui questi elementi possano avere un riconoscimento di valore.

Il tempo dedicato, ad esempio, oggi non rientra nella contabilità della prestazione. Quando si ascolta un paziente si fa cura, è un elemento che produce valore. Se un ospedale agisce unicamente sulla base della produttività economica non funziona. I pazienti chiedono soprattutto ascolto, accompagnamento, oltre che, naturalmente, di guarire». 

Medicina e Spiritualità? 

Leggo che con Tullio Proserpio sia nato tutto vicino a una macchinetta del caffè… è evidente come ci siano molti punti in comune tra voi, che vi hanno spinto a scrivere questo libro a quattro mani. avete incontrato anche elementi di inconciliabilità? 

«Direi che le posizioni di partenza sono inconciliabili perché, appunto, lui è credente e sacerdote; io non so se sono più credente, assistendo ai dolori e alle vicende che contrastano con un senso di giustizia, eppure, ci accomuna il tema della speranza. La speranza è una delle finalità della medicina e della psicologia, oltre che di una prospettiva spirituale, la speranza è davvero un tema centrale. Un tema che in biologia non si studia.

A Medicina nessuno dei miei testi conteneva la parola speranza. Una volta mi sono messo a guardare e non l’ho trovata dal primo al sesto anno. La speranza, comunque sia declinata, è invece un fattore terapeutico molto importante.

La speranza di vario genere, intendo, perché può essere quella di guarigione, la speranza alta di potersi rivedere dopo la morte, oppure può essere la speranza che le giornate abbiano un dolore mitigato, contrassegnate da una buona assistenza, la speranza che non vi sia solitudine rispetto allo sgomento della malattia.

Questo, credo, sia un aspetto che oggi sempre più si cerca di insegnare nelle scuole di medicina e che, però, appunto, richiede grande attenzione. In fin dei conti, tutta la vicenda del Covid ha  ricordato che la cura non è soltanto tecnologia, ma anche umanità e capacità di solidarietà». 

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