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Alla ricerca del genitore ideale

E il genitore ideale, come dovrebbe essere?

Secondo lo studio dell’Osservatorio delle Famiglie Contemporanee di PRG Retail Group, in collaborazione con BVA-DOXA, il genitore ideale dovrebbe essere: paziente e simpatico.

Punto.

Ascoltare le richieste di mercato è un’operazione di marketing buona e utile oltre che redditizia. Ma può essere questo il sistema operativo che dirige l’approccio genitoriale?

Rivolgiamo qualche domanda sul tema al Professor Iannò (Counselor e dottorando in Ministeri della famiglia (Andrews University, Michigan, MI, USA), e padre).

E il genitore ideale, come dovrebbe essere?

«Utilizzando un paradosso, direi che un genitore non dovrebbe essere affatto ideale. Non esiste nessuna realtà ideale, se non nei nostri desideri. Noi ci scontriamo con la realtà, che è umana, fragile, contraddittoria. E, allo stesso tempo, sentiamo il desiderio di emergere da questi limiti per protenderci verso – appunto – un ideale. Ecco, il genitore ideale si pone proprio in questa terra di mezzo: tra il reale e l’ideale.

Un genitore che si illude di essere ideale, magari vantandosi dei risultati educativi che lui vede nei propri figli, rischia di presentare un’immagine distorta di sé. Il figlio, se ci crede, potrebbe a sua volta voler raggiungere questo “irraggiungibile”, senza mai poterci arrivare; e quindi vivere la perenne frustrazione di non riuscire mai ad imitare, e superare, il proprio genitore. Oppure, all’opposto, vedendo il genitore per come è, arrivare a svalutarlo totalmente per distruggere questa “idealità” non vera che il genitore tende a dare di sé».

Paziente e simpatico

Secondo lo studio dell’Osservatorio delle Famiglie Contemporanee, su citato, il genitore ideale dovrebbe essere: paziente e simpatico… Le sembra sensato puntare a soddisfare tali requisiti?

«Sì e no. Nel senso che questa nuova generazione di genitore ci tiene veramente al parere dei propri figli: li ascolta, si mette in discussione, cerca di porsi su un piano paritario, vuole essere confermato nelle proprie capacità genitoriali. Forse, diciamocelo, è un po’ troppo.

Nel senso che, probabilmente, rifiutando un modello genitoriale che ha vissuto – e subito – dove non esisteva per nulla il dialogo e dove il volere del genitore era semplicemente “legge”, il genitore di oggi cerca di compensare andando all’altro estremo. Ogni rivoluzione ci spinge all’altro estremo, e così, per non sbagliare in un senso… sbagliamo in quell’altro.

Quindi, diciamo che il marketing genitoriale, quello che fa indagini di mercato per compiacere al proprio cliente – cioè, il figlio – è una politica poco remunerativa. Perché si perde, piano piano, l’autorevolezza stessa dell’essere genitore. Un genitore deve poter essere apprezzato, senza andare a scapito del suo ruolo che è anche normativo e direttivo.

Un genitore deve sapere ascoltare, ma anche sapersi fare ascoltare.

Quindi, ben venga l’ascolto dell’altro, se questo ci può aiutare a essere migliori, a recuperare alcuni tratti indispensabili dell’essere genitori. Ma senza cadere nel pericolo della ricerca dei “like” a tutti i costi.

Sufficientemente buono

Quali ‘Manuali’ è secondo lei più utile seguire per tutti gli apprendisti genitori?

«Per chi ha avuto l’opportunità di crescere in un ambiente equilibrato, con genitori (possibilmente, entrambi) che hanno saputo coniugare relazione e fermezza, e che hanno sviluppato una personalità abbastanza armoniosa, basta il detto coniato da un famoso pediatra e psicoanalista, Winnicot, che parlò di “madre sufficientemente buona”. 

Un genitore “sufficientemente buono” sa dentro di sé cosa è meglio per il figlio, sapendo anche imparare dai propri sbagli. Sa entrare in dialogo con altri adulti – e perché no, anche con educatori competenti – per confrontare le proprie idee educative e capire se vanno riadattate. Sa documentarsi e confrontarsi con altri modelli educativi e adattarli ai propri figli – ognuno, sempre diverso dall’altro.

Certo, c’è anche l’adulto non equilibrato, disfunzionale, pure patologico. Ma per questo secondo scenario, a nulla valgono i vari manuali educativi, se non un serio e profondo percorso psicologico che vada ad affrontare i propri disagi – e anche traumi – per venirne fuori con più consapevolezza. E migliorare come genitore».

Perfezione

Dei genitori perfetti, nella dimensione della pazienza e simpatia, esistono?

«Perfetti, no. Ma pazienti e simpatici, si.

Ho conosciuto genitori che hanno fatto della pazienza e simpatia un approccio genitoriale fondamentale. Certo, a volte la pazienza l’hanno persa. E in alcuni momenti non sono stati per nulla simpatici, soprattutto agli occhi dei figli, quando hanno dovuto dato loro alcune limitazioni (quelle che comunemente chiamiamo: punizioni). Ma queste “impazienze” e “antipatie” non erano tratti caratteristici del loro carattere, anzi, esattamente l’opposto. E i loro figli anche imparato a capirlo».

Nella sua professione di counselor quanti ne ha incontrati?

«È una domanda un po’ difficile, perché rischio di contraddirmi con quanto detto prima. Diciamo, allora, che normalmente quando qualcuno si rivolge a un professionista della relazione d’aiuto, lo fa perché sta attraversando dei momenti difficili che gli impediscono di agire come vorrebbe. Quindi, un counselor – così come lo psicologo, il medico, ecc. – vede sempre il “difetto”, la “mancanza”, se non addirittura, la “patologia”.

Un counselor ha un osservatorio particolare perché vede la popolazione che, in qualche modo, presenta delle disfunzionalità.

Nessuno va da un professionista per aggiornarlo sui suoi successi genitoriali. Anzi, esattamente il contrario. Quindi, diciamo che questa mia conoscenza di genitori pazienti e simpatici mi viene da altri ambiti. Ad esempio, dal contesto comunitario ecclesiastico dove opero, essendo anche un pastore protestante. In quel contesto, osservo e conosco uno spaccato di società più rappresentativo. In quel contesto, ho conosciuto genitori che hanno lasciato veramente un bel segno, non solo nelle vite dei loro figli, ma anche su me, in quando educatore e pedagogista».

Giocare

Nello studio emerge il desiderio espresso dai figli di avere un genitore più disposto a giocare… questo mi pare un desiderio sul quale lavorare, che ne dice?

«Mi sembra un bel desiderio. Anche perché oggi abbiamo delegato ai “professionisti” quel tempo libero da impegnare nel gioco, magari proprio assieme ai propri figli. I figli, per giocare, li portiamo in palestra, in piscina, a un campo sportivo. Poi, li lasciamo là per riprenderli quando la lezione è finita. Il gioco è diventata una prestazione agonistica da imparare, da cui noi genitori siamo scomparsi.

E invece, magari, dovremmo tornare indietro, dove nel gioco insegnavamo noi stessi ai nostri figli.

Ricordo quando i miei figli erano piccoli e dedicavo tanto tempo per giocare con loro. Insieme, abbiamo imparato a dare i primi calci al pallone, a tenere in mano una racchetta da ping-pong, a centrare un canestro, a stare in equilibrio sui pattini. Certo, loro di energie ne avevano più di me e dopo un po’ di tempo sentivo un po’ di affaticamento. Ma quel tempo speso con loro non aveva prezzo. E ha ripagato di gran lunga».

Cosa si nasconde a suo parere nella complicità legata al gioco?

«Forse, quello che chiedono i ragazzi è passare del tempo assieme ai genitori, in uno spazio non ancora occupato da altri compiti. Certo, non possono portarci a scuola con loro, né possiamo portarli a lavoro con noi (come una volta era possibile nella cultura contadina o artigiana). Se vediamo insieme un film, certo non possiamo dire che ci stiamo relazionando.

Dove allora possiamo crescere assieme, se non nel gioco?

In quel contesto ci conosciamo, ma anche ci misuriamo. È nel gioco che scopriamo quanto stiamo crescendo, e farlo però con il proprio genitore ci assicura di non essere vittime né dell’agonismo sfrenato né di competizione escludente. E quando un figlio, giocando con il proprio genitore, finalmente riesce a vincere, inizia a costruire la propria identità e autostima, in un contesto protetto.

Questa complicità del gioco può gettare le basi perché un giorno, una volta cresciuti i figli, si possano fare assieme cose più impegnative. Che sia andare a scegliere assieme la loro prima auto, la scelta della casa, oppure la location del matrimonio, questa complicità genitore-figlio può essere la normale evoluzione dell’aver passato del tempo assieme quando erano piccoli. A giocare».

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