Ho vissuto più di dieci anni a Firenze, nella città dell’Arno e del Rinascimento. L’appuntamento è fissato per le 11.00, in Via della Dogana 10, dietro la chiesa di San Marco.
Non è colpa mia, sono fatto così, mi hanno disegnato in questo modo, e le strade le dimentico subito e pure senza fatica. Scordo i nomi delle vie e delle piazze, mi perdo facilmente nel groviglio dei vicoli, il grigio e le sue sfumature mi appaiono tutte uguali e mi avvolgono nell’indistinto
imbambolato e inconsapevole.
L’invenzione del gps mi ha risolto un sacco di problemi.I volti, le storie, le persone, i capitoli e i capoversi dei libri – per contro – come anche le vicende, gli aneddoti colorati, le strofe di una poesia o di una canzone mi rimangono stampate in modo vivido, come cicatrici, marchiate addosso per sempre.
Entro nel laboratorio di Paolo Vettori e dei suoi figli, che ci aspettano sulla soglia ognuno con il suo grembiule verde d’ordinanza.
“Laboratorio” non è affatto riduttivo, è una definizione che in realtà
non pone limiti alla genialità: è il luogo del lavoro, dell’arte, della sperimentazione continua della e nella creatività.
Paolo, Lapo, Dario Vettori sono liutai. È il nonno, violista, montanaro di Firenzuola, ad aver acceso la scintilla.
«Il babbo era un violista e un giorno ha deciso di diventare liutaio. Ha smontato il suo strumento e lo ha copiato pezzo per pezzo. Non soddisfatto della creatura, però, lo pose ad ardere sul braciere».
E poi la bottega, i rastrellamenti nazisti in montagna, il fratellino morto, la passione instillata naturalmente, il richiamo dell’arte, la scultura e la cultura.
Sulle pareti strumenti finiti e altri a metà, foto a colori e in bianco e nero, la sezione
di un albero centenario e le date dei più grandi liutai della storia, tra i quali spicca l’unico in maiuscolo: ANTONIO STRADIVARI.
I Vettori sanno di cosa parlano quando ricordano e quando progettano l’avvenire, le loro mani sapienti intagliano, piegano, scolpiscono, sfregano finemente.
Lo fanno per vivere, certo, nel laboratorio si va per lavorare e guadagnarsi il pane, ma sono anche consapevoli e felici di offrire a un albero abbattuto, a una fetta spessa di legno, una vita degna di nota e di note capaci di guidare il viandante smarrito che, come me, cerca il senso
dell’esistenza.
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