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Giammarco Sicuro tra vita, morte e quello che c’è in mezzo

Storie e testimonianze di un reporter oltre i confini

Ho appena finito di registrare un dialogo su zoom con Giammarco Sicuro, inviato speciale RAI, Redazione esteri, appena rientrato dall’Afganistan e ancora in quarantena.

Impressioni a caldo?

Sono impressioni, le mie, intervallate da scariche di brividi lungo la schiena.

Eccole, dunque, in fila afgana, declinate al participio presente: impressionanti, appassionanti, allucinanti per i benpensanti… è un fiume in piena, Giammarco, un fiume di parole in grado di smuovere e commuovere e travolgere le coscienze.

Il peso dell’informazione può apparire scarso in paesi come il nostro, colpiti dall’infodemia quotidiana, e l’impatto desiderato può perdersi in rivoli melmosi e rigagnoli di scolo, senza sbocco alcuno. Sforzi inutili, dunque, impegno superfluo. Può essere, in molti casi, ma non sempre è così.

«Entro in un carcere vicino a Kandahar e osservo quello che poteva essere il nostro medioevo: uomini, donne e bambini dietro le sbarre. Il regime non tollera i diversi. Omosessuali, tossicodipendenti (l’Afganistan è produttore globale di oppio, i talebani si sono armati vendendo eroina a tutto il mondo) donne disubbidienti ai loro padroni maschi, bambini poverissimi e intirizziti dal freddo che mendicano ai crocicchi delle strade». 

Giammarco Sicuro segnala le sue osservazioni documentate sul campo all’UNICEFF che si mobilita immediatamente. I bambini vengono spostati in strutture differenti rispetto al carcere, sempre sotto custodia ma non più dietro le sbarre. Poco? Meglio di nulla, molto meglio di nulla.

La forza delle parole – deboli per esile costituzione- delle immagini: foto e video, può far strada e lacerare la cortina di indifferenza e filo spinato, può trapassare le coscienze finalmente stimolate dalle conoscenze mediate dalla sensibilità di chi le racconta. E Giammarco le sa raccontare bene, con grande sensibilità.

Da noi, alle nostre latitudini, sembra interessare solo la narrazione legata alla condizione femminile, il burqa e poco più. Non che non sia importante ma c’è dell’altro, tonnellate di drammaticamente altro.

Sarebbe possibile per Giammarco svolgere il lavoro del giornalista anche in condizioni più favorevoli, ci sono mille storie brutte e belle da raccontare anche in Italia, in Europa, in Occidente, al caldo dei termosifoni, ma lui si sente attratto dalle parti del mondo meno sicure. Certo, ma va detto: non si sente né migliore né peggiore di altri, risponde semplicemente a una vocazione e vi risponde in modo responsabile.

«Giammarco nei tuoi pezzi e le tue foto tu descrivi la disperazione, lo fai perché sei sconfortato e non vedi altra uscita o perché sotto sotto covi e soffi sulla brace della speranza?».

La speranza c’è, glielo si legge negli occhi e la dichiara a chiare lettere. È una speranza consapevole, la sua. Conscia dei propri limiti ed è proprio questo, credo di poter dire, il suo punto di forza. Una forza contagiosa, quella trasmessa da questo giovane reporter di frontiera.

«Cosa potremmo fare noi, Giammarco, di concreto per contribuire a tener viva questa fiammella?».

Passare parola e raccogliere azioni di solidarietà attraverso COSPE Onlus. Solo così, per il momento, è possibile andare oltre le impressioni che emozionano e non lasciano traccia.

Ne vale la pena Giammarco?

No! Ne vale la gioia.

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