Già Direttore del Dipartimento Affari Pubblici e Libertà Religiosa dell’Unione Italiana delle Chiese Avventiste del 7° Giorno.
Segretario nazionale dell’Associazione internazionale per la difesa della libertà religiosa, ong riconosciuta presso l’Onu, l’Unesco e il Consiglio d’Europa.
Già Presidente della ‘Federazione Donne Evangeliche in Italia’ (Fdei), membro del Consiglio direttivo dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne.
Dottoressa Bognandi, da dove nasce il suo interesse e la sua sensibilità singolare per le libertà al plurale?
Fu per caso che la mia esistenza si incrociò con il Dipartimento della libertà religiosa della mia Chiesa. La creatività del responsabile che prendeva contatti con persone di ogni ceto sociale e di ogni estrazione politica e religiosa mi intimidiva.
Ma contemporaneamente mi entusiasmava. Scoprivo realtà assolutamente diverse da me e dal mio mondo, ma non per questo le sentivo ostili, tutt’altro. Ero solo io che mi ero chiusa in un’enclave che mi dava sicurezza, ma non mi faceva crescere.
All’inizio ci fu la necessità, per via del lavoro, di frequentare ambienti esterni e importanti. Poi la curiosità di esplorare mondi nuovi e questo fece esplodere in me la passione per questo settore che promuoveva la libertà.
Libertà di scegliere tra varie opzioni in tutti gli ambiti. Libertà dai condizionamenti personali, sociali, ideologici, religiosi che fanno pressione sulla vita di ognuno/a. Libertà per rendere noi stessi e gli altri liberi.
Libertà religiosa? In che senso?
Facendo parte di una minoranza religiosa in Italia, mi ero dovuta adattare, con grande disagio, all’idea di essere diversa. Tutti si dichiaravano cattolici, anche se solo pochi professavano veramente la loro fede. Lottare perché lo Stato si comportasse in maniera più laica e prendesse provvedimenti per garantire le libertà anche di coloro che hanno idee religiose diverse, mi sembrava una battaglia sacrosanta alla quale dedicare ogni energia.
Man mano che mi addentravo nel tema, mi rendevo conto che l’art. 7 della Costituzione (che regola i rapporti con la Chiesa cattolica) aveva avuto un immediato adempimento. Mentre l’art. 8 (che riguardava le confessioni di minoranza) erano, e molte lo sono ancora, normati dalla cosiddetta “legge sui culti ammessi” del 1929-30.
Cioè una legge che oggi ha quasi cento anni. Ed è definita anche “legge gruviera” a causa dei numerosi buchi creati dalla Corte Costituzionale che ha dichiarato quei provvedimenti incostituzionali.
Ho quindi collaborato con chi lavorava per attuare questo articolo della Costituzione attraverso le Intese. E’stata un’esperienza molto interessante.
Un altro aspetto importante è stato quello di lavorare per rendere gli studenti nelle scuole liberi di scegliere di avvalersi o meno dell’insegnamento religioso cattolico. Non portavamo avanti da soli queste battaglie, ma lo facevamo con altri. E questo ha favorito collaborazioni estremamente importanti per noi, ma anche per il Paese.
Quante battaglie ha dovuto combattere e quanti pregiudizi ha dovuto affrontare come donna in una dimensione (quella religiosa) tradizionalmente declinata al maschile?
Non penso che si dica nulla di nuovo quando si afferma che il potere religioso è quasi esclusivamente in mani maschili. Per secoli e millenni, il potere è stato declinato sempre al maschile. Per quanto riguarda la parità di genere, ritengo che le confessioni religiose non siano innocenti nei confronti del destino destinato alle donne in tutti gli ambiti.
All’interno delle confessioni esse hanno svolto un ruolo subordinato. Ma anche nella vita reale le religioni non le hanno sostenute in alcun modo. Prova ne è che, anche nelle società molto connotate dal punto di vista religioso, le donne sono oggettivate, usate e abusate. Sfruttate sessualmente, concupite e strapazzate. Sono comprate e vendute, soggiogate e schiavizzate, mercificate, sottorappresentate. Ingabbiate in pesanti stereotipi di genere. Colpite da violenze psicologiche, morali, fisiche, economiche e anche religiose.
Fin dalla nascita, sono stata inserita in una comunità evangelica in seno alla quale hanno portato i loro frutti insegnamenti della Riforma protestante. Insegnamenti che hanno considerato alla stessa stregua, in termini di salvezza e di dignità, uomini e donne. Ma che in qualche modo hanno risentito della cultura secolare. Per cui alle donne automaticamente si pensava per le mansioni più umili e di servizio.
Non ho mai notato, nella mia chiesa, una chiusura nei miei confronti. Ma il genere femminile non veniva promosso e valorizzato come doveva essere.
Per cui, una forma di invisibilità ha colpito sia me sia altre donne. Per fortuna, la storia si evolve e oggi c’è una sensibilità maggiore verso questo tema. In ambito protestante storico, le donne possono accedere anche ai ruoli apicali così come gli uomini.
Nella vita professionale, ho visto con piacere che, a livello istituzionale: statale, ministeriale, cittadino, sono state nominate delle donne per gestire la libertà religiosa e i rapporti interconfessionali. E questo mi dava forza.
Credo però che ci sia ancora diversa strada da fare. Le realtà religiose dovrebbero con coraggio chiedere scusa al genere femminile per aver sostenuto tesi patriarcali che hanno umiliato le donne relegandole in ruoli subalterni. Per essersi adeguate alla cultura secolare senza far nulla per essere “sale” e “luce”. Per non essersi opposte decisamente a chi esercita violenza. Mentre, per amore del quieto vivere, le hanno invitate a sottomettersi a degli aguzzini.
Ci racconta un episodio emblematico che l’ha aiutata a riconoscere la fondatezza della sua vocazione?
Ho ritenuto estremamente utili quelle ore trascorse negli ospedali con il personale sanitario per far conoscere altri modi di vivere la fede. Per aiutarli a identificare e capire i degenti che avevano esigenze spirituali diverse. E per fornire alle strutture sanitarie i recapiti di guide spirituali diverse dalle cattoliche.
Si sa quanto, in uno stato di debolezza, si abbia bisogno di conforto spirituale. E conoscere esponenti religiosi, che possano dare l’assistenza più consona durante la malattia e accompagnare nel momento del decesso, è una cosa estremamente importante.
Nella stessa direzione, sono stati utilissimi gli incontri con il personale docente nelle scuole e con i giornalisti. Per fornire loro conoscenza delle altre realtà presenti sul territorio, materiale consultabile in ogni momento e recapiti di responsabili spirituali.
Dopo tanti anni, voltandosi indietro, ne è valsa davvero la pena? È cambiato qualcosa?
Ne è valsa sicuramente la pena perché non è stato un impegno inutile. Una volta, quando si pensava ai “diversi” dal punto di vista religioso, veniva subito in mente la parola “setta” che aveva, ed ha ancora oggi, un’accezione negativa.
La società è cambiata, ma anche noi siamo cambiati. Abbiamo imparato a dialogare e a collaborare più di prima. Ciò non vuol dire che tutti i problemi siano risolti. Tuttavia abbiamo maggiori strumenti per combatterli. Affinché ogni cittadino e ogni cittadina si sentano a proprio agio nella medesima società e possano così dare il meglio di sé per il bene comune.