Il dottor Merrick aveva raccontato una serie infinite di bugie, passando le giornate a controllare ogni loro minuto, pasto, sonno, movimento, relazione ed emozione. Assistiti e curati, allenati per non ammalarsi in un ambiente protetto e chiuso.
Il loro più grande desiderio era quello di vincere la “lotteria”, per riuscire ad andare nell’unico posto sulla Terra in cui c’era ancora vita. Sì, il premio della lotteria è la terra promessa, dove non c’è dolore né morte, dove si vive in armonia, lontani dal brutto e cattivo mondo malato.
Era questo che avevano raccontato a Lincoln Sei Echo e a Jordan Due Delta – a fare l’appello ci stavano due ore ogni mattina. Il pianeta era finito e loro, insieme a migliaia di altri ragazzi, vivevano protetti dal contagio, tenendosi in forma, in attesa della vincita alla lotteria, che avrebbe voluto dire libertà. Sono in migliaia a crederci, in quell’allevamento a cielo chiuso, controllati ad ogni battito di ciglio; si cresce, si vive e ci si innamora e poi?
The Island
È la curiosità a rompere gli schemi
La curiosità di seguire il volo di una falena, entrata accidentalmente nella struttura. Come è possibile che esista ancora una forma di vita fuori da lì? Seguirla fin dove? Fino ai piani inferiori, fino a scoprire che il premio della l o t t e r i a non sarebbe stata una nuova vita bensì una morte definitiva. L’espianto.
Terminati all’interno di laboratori pieni degli strumenti più adatti, pronti per essere usati nel preciso momento in cui il cliente finanziatore avesse fatto richiesta di un organo, “coltivato” ed “allevato” nel corpo del suo clone perfetto, numero di serie, fiore all’occhiello della tecnologia d’avanguardia. In fondo, “pagato” non è “rubato”; trattasi di transazione coperta a cuore aperto. Galeotta la falena.
Il mondo non era finito come avevano raccontato loro.
Era solo arrivato ad essere un posto peggiore, si era spinto più in là, troppo in là. Per Lincoln e Jordan non resta che la fuga, la ribellione, la lotta per la vita. E la liberazione di tanti cloni che, una volta all’esterno, avrebbero potuto scegliersi un nome come si deve e un futuro non determinato da calcoli ma da sogni e desideri.
È l’epilogo di The Island, pellicola fantascientifica girata dal regista Michael Bay che, con i consueti colpi di scena rumorosi ed esplosivi, diventati suo marchio di fabbrica, porta lo spettatore lontano nel tempo e lontano dalla ragione.
È solo fantascienza? Fin dove siamo pronti a spingerci?
La stessa domanda deflagra nel mezzo di un altro film, noto al grande pubblico. Se la pone un gigante di Hollywood, Denzel Washington, che interpreta un operaio la cui vita, fatta di ristrettezze, scorre comunque serena finché non viene diagnosticata un’insufficienza cardiaca al figlio.
Sbam! John Q, questo il suo nome, non ha certo i soldi per garantire a suo figlio le cure migliori. Non ha mica una lista di cloni allevati su un’isola da cui attingere a piacimento strisciando la carta.
Lui timbra il cartellino ogni giorno e torna a casa la sera stanco, affondando su un divano comprato ai grandi magazzini, felice di rilassarsi e di passare le serate con la sua famiglia.
Vende tutto, raschia il barile ma non basta mai; cittadino degli Stati Uniti, lì servono i verdoni per farsi curare. E se anche li trovi, serve un donatore, c’è una lista, un’attesa sfiancante ad ogni giro di roulette, ad ogni battito nel petto, finché dura. Fin dove siamo pronti a spingerci? A quale costo? Serve un cuore ma un cuore non c’è. John è pronto a donare il suo, fermato pochi attimi prima di procurarsi la morte per regalare la vita. Un paradosso dietro al gesto estremo di un padre.
Un sacrificio
Un sacrificio: lui pronto a farlo, la società impreparata ad accettarlo, perché segno di fallimento e punto di non ritorno. Quel bambino deve vivere, con un padre che si prenda cura di lui. Sarebbe stato davvero un gran cuore però. Quante corse a perdifiato contro il tic tac inesorabile che porta anzitempo ai titoli di coda. Pronti a tutto pur di dare più sabbia alla propria clessidra o a quella dell’amore più caro. Lunghe attese, dietro a chi ha meno ore di te, davanti a chi ne ha qualcuna in più, aspettando quel dono, da chi può farne a meno o da chi non sa più cosa farsene.
John Q non sei mai stato solo, e il copione del tuo film è il copione di milioni di vite, alcune ormai andate, ma tante rinate. La somma di quegli organi organizzati trasforma ogni pezzo di carne in anima pensante, creativa e spirituale, capace di provare empatia e valorizzare il più profondo significato del dono, ricevuto tanto ai nastri di partenza quanto a un doloroso e cruciale pit stop.
Tra disperazione e speranza
Sono le molteplici forme di disperazione, che di fronte ai verdetti più freddi, mettono l’essere umano a nudo, all’angolo, a fare i conti con un presente che sembra amaramente più dilatato del futuro. Ci sono poi le speranze, i gesti d’amore, per passione o adesione, che tornano a dare profondità al tempo.
Quante storie lette, viste o vissute hanno riempito pagine e pellicole, portando alla più profonda riflessione sul valore del corpo umano, di ogni suo pezzo riempitivo e ogni suo vuoto; di ogni sua connessione, contrazione e ragion d’essere. Tutto questo può essere toccato, calcolato, pesato.
21 grammi
Paul Rivers, personaggio del film “21 Grammi”, interpretato magistralmente dal premio Oscar Sean Penn, ha risposto così dal suo letto di morte: “Quante vite viviamo? Quante volte si muore? Si dice che nel preciso istante della morte tutti perdiamo 21 grammi di peso. Nessuno escluso. Ma quanto c’è in 21 grammi? Quanto va perduto? Quando li perdiamo quei 21 grammi? Quanto se ne va con loro? Quanto si guadagna? Quanto… sì… guadagna? 21 grammi, il peso di cinque nichelini uno sull’altro. Il peso di un colibrì, di una barretta di cioccolato. Quanto valgono 21 grammi?”
Quei 21 grammi valgono tutto. Andatelo a dire a John Q, a Lincoln Sei Echo e a Jordan Due Delta.