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“Giuvà focu a ra cura”

Un racconto tratto dal romanzo Cieli Tamarri

Io mi sono rimesso a considerare che sotto il sole, per correre non basta essere agili, né basta per combattere essere valorosi, né essere saggi per avere del pane, né essere intelligenti per avere delle ricchezze, né essere abili per ottenere favore; poiché tutti dipendono dal tempo e dalle circostanze.
Ecclesiaste 9:11

Non ho mai saputo chi era Giuvannu focu a ra cura tranne che fosse un facchino. Lo incontravo spesso in paese con del materiale sulle spalle: un sacco di iuta gonfio di merci, una cassetta di frutta, un mobile antico, un cestone di giunchi pieno di fave fresche, di nespole gialle, di fichi rossi.

Canticchiava i motivetti del momento di Luciano Taioli e Claudio Villa. Aveva una voce sottile e aggraziata che pareva quella di un bambino. Era piccolo di statura, di età indefinibile e dai capelli radi e neri.

Il volto era difficile da vedere, nascosto com’era sempre dal braccio a sostegno del materiale che portava sulla spalla sinistra. Era magro ma dovette essere assai energico e aveva movenze da lupo, asciutte e forti.

Mai lo ricordo riposare con il carico momentaneamente posato sui muretti o sui mille gradini che percorrono in lungo e in largo l’acrocoro rossanese. Camminava sempre del suo passo non lentissimo né veloce, ma sicuro e regolare. In nessun momento lo ricordo senza nulla sulle spalle.

Aveva famiglia Giuvannu? Figli? E qual era il suo soprannome? Nessuno ne sapeva niente. Per tutta l’infanzia mi pareva un fantasma che solo io riuscivo a vedere. Quando chiedevo ricevevo in risposta sempre dei boh. Infastiditi. Eppure, doveva avere rapporti con molta gente dato che trasportava sempre qualcosa. Con la pioggia, con il sole, sotto la neve, incontravo sempre Giuvannu più volte nel corso della giornata.

Avevo sei, sette anni ma ero assai curioso e quel personaggio che pareva provenire dal nulla o dalle ombre della notte mi intrigava.

Su di lui correva la voce che fosse un uomo pericoloso, che fosse stato ricoverato varie volte in manicomio poiché era pacifico e buono, ma che esprimeva una violenza incontrollabile verso chiunque gli gridasse dietro una frase: “Giuvà, focu a ra cura!”.

“Mi raccomando – mi diceva mio padre quando gli chiedevo di quello strano facchino silenzioso che attraversava da mattina a sera il paese carico sempre di qualcosa – non imitare quegli idioti che si divertono malvagiamente a sconvolgergli la vita gridandogli quella frase. Oltre che cosa ignobile è anche un atto pericoloso. È capace di ammazzarti!”

“Ma come mai? – chiedevo – un uomo così mite e lavoratore dovrebbe perdere la ragione per una semplice frase?

“Mah! – mi rispondeva mio padre – nessuno lo sa; quello che so è che le parole, in certe circostanze e in certi momenti sono pugnali affilati che lacerano l’anima.”

Un giorno entrò nella bottega di calzolaio di mio padre un professore che insegnava al liceo di Rossano e che amava moltiplicare le sue lauree. Era già verso la pensione e aveva appena conseguito la quarta o la quinta laurea; in psicologia questa volta. Doveva ritirare un paio di scarpe che mio padre stava cerando prima di consegnargliele. Si sedette e nell’attesa gli chiesi di “Giuvannu focu a ra cura.”

Il professore ci disse che Giuvannu era forse ebreo, che forse era stato internato in un campo di concentramento ed era tra i pochi a esserne uscito vivo. Chissà, forse quella frase gli ricordava qualcosa che non voleva mai avere vissuto, ma anche che non voleva completamente dimenticare.”

“E perché allora – disse mio padre – se non vuole dimenticare e qualcuno gli ricorda la sua ira diventa incontrollabile?”

“Forse – replicò il professore – a lui quelle parole ricordano ciò che mai è riuscito a elaborare o a rimuovere o che forse non vuole rimuovere. Esistono dolori insopportabili che però ci rappresentano, simboleggiano la somma di noi stessi, ciò che siamo stati o che volevamo essere, sono la chiave di una porta che abbiamo volutamente chiusa e che non vogliamo che alcuno attraversi; la custodiamo gelosamente perché appartiene a noi soli; ce la portiamo impressa a fuoco nei recessi misteriosi dell’anima e non tolleriamo che qualcuno ce la rubi e apra quella stanza misteriosa e oscura che soltanto noi abbiamo il diritto di aprire quando, come e dove vogliamo… Per piangere e soffrire, forse gioire, continuare comunque ad amare nel dolore da vivi.”

“Non ci ho capito proprio niente – disse mio padre quando il professore, ritirate le scarpe, andò via – o forse il professore non voleva dir proprio nulla e si diverte a corbellare noi poveri analfabeti!”

“Ma sarà poi vero che quella frase mandi in bestia il facchino? Non saranno solo storie che si raccontano?” Replicai.

“È vero, è vero, altroché se è vero!-  disse mio padre- Raccontano che un giorno abbia ridotto in fin di vita un uomo che aveva pronunciata quella frase davanti a lui.”

Rimasi scettico e credetti a una favola anche perché nessuno aveva visto mai nulla ma tutti parlavano di Giuvannu per sentito dire.

Un giorno, come tante altre volte, lo incrociai. Lui scendeva dal Muro di Fosse, io salivo da San Marco. Lui aveva appena iniziata la discesa, io avevo appena terminato di salire. Aveva sulle spalle due casse di arance una sull’altra che, come al solito, poggiava sulla sua spalla sinistra e il braccio destro che reggeva le casse gli copriva il volto. Appena lo sorpassai mi dissi che non era possibile ciò che raccontavano e che non erano che storie. Un facchino non butta in aria la merce che sta trasportando solo per una frase. Era tutto falso. E allora da idiota perfetto volli verificare e gridai: “Giuvà focu a ra cura.”

Giuvannu lanciò in aria le casse d’arance, che si sparsero sull’asfalto e rotolarono giù per la discesa come grandi e festose biglie rosse, invertì il suo cammino e si slanciò come un furia verso la voce che aveva sentito. Conscio del pericolo imboccai la scalinata che va verso San Giovanni ma non ce l’avrei mai fatta; mi avrebbe raggiunto e probabilmente ucciso. Allora, forse ispirato dal santo degli idioti, vidi il portone dei De Mundo spalancato, mi arrampicai sulla raggiera posteriore della gigantesca anta sinistra; salii tanto in alto da toccare con la testa il tetto con il cuore raggelato dalla paura.

Giuvannu corse su per le scalinate che portavano a San Giovanni ma comprese presto che mi ero infilato nel portone dei De Mundo e allora entrò nel palazzo come un forsennato, salì sino in cima, bussò con forza alle porte credendo che mi avessero nascosto e allora ebbi il tempo di scendere e correre a perfidiato verso casa.

Non riuscii a nascondere il tremore a mio padre che mi fece mille domande a cui cercai di rispondere con delle bugie. Allora capì che qualcosa di grave mi era accaduto. Mi prese per mano e volle che risalissimo assieme la strada che da San Marco va al Muro di Fosse. Percorsi un centinaio di metri, vide gli angoli della strada rossi di arance e le due casse vuote in mezzo alla strada. Comprese tutto. Tornò indietro e la cinghia fu una frusta che mi segnò le carni per svariate settimane.

Svenni ed ebbi febbre per alcuni giorni. Facevo finta di addormentarmi e solo allora mio padre si avvicinava al mio letto, pregava perché guarissi e piangeva senza ombra di pentimento. Ripeteva: “Signore perdonalo, anche se io non riesco a perdonare chi ferisce per diletto i deboli.”

Dopo circa una settimana ripresi la vita di prima, il volto, le braccia, le gambe, ancora segnato dalle cicatrici.

Passai davanti al palazzo De Mundo ed ebbi un brivido d’orrore.

Alla destra del palazzo, in un buco di pochi metri quadri, c’era un calzolaio povero, mastro Ninnuzzu. Aveva visto tutto. Mi chiamò per rimproverami, ma quando vide com’ero segnato mi disse;

“Mastru Totonnu è un grande uomo. Ti ha punito severamente e giustamente.” Io rimasi in silenzio e lui mi chiese di sedermi; volle raccontarmi la storia di Giuvannu.

“Non so se questa storia è vera. Io la conosco così, comunque, sono state vere molte storie come questa. Giuvannu è di origine ebrea e fu condotto giovane in un campo di sterminio in Polonia. Quando catturarono lui presero anche una giovinetta di cui era follemente innamorato e che doveva sposare di lì a qualche mese.

Avevano già affittato la casetta che sarebbe stata il loro nido d’amore, sotto San Marco. Non era che una stanza ma assai ampia dalla cui finestra si vedeva il blu del nostro mare. La casa aveva anche un bagnetto appena all’esterno e un migliaio di metri quadri di terreno intorno sul quale Giuvannu aveva già piantato degli aranci, dei mandarini, degli ulivi. Visitavano spesso il loro nido che via via arredavano e la piccola aia che la futura sposina già immaginava profumata di basilico e di zagara e colorata di garofani rossi e di begonie.

Entrarono lo stesso giorno nello stesso accampamento, ma le baracche dei maschi erano divisi da quelle delle femmine dal filo spinato.

Tutti i giorni, i due giovani cercavano di vedersi e quando ci riuscivano, sempre da lontano, si amavano di sguardi, di lacrime e di speranza. Lui diceva a lei: “Presto la guerra finirà! Torneremo alle nostre timpe rosse, alla nostra casetta, ci sposeremo, avremo dei bambini bellissimi… Coraggio gioia mia.” Lei sorrideva e piangeva, piangeva e sorrideva e gli soffiava baci nel palmo della mano.

Mancava ormai poco alla fine della guerra e alla loro libertà.

I gendarmi nazisti, negli ultimi giorni, forse consci della fine ormai prossima si ubriacavano sovente e inventavano maniere originali e becere per divertirsi. Un pomeriggio – i russi avrebbe liberato quel campo l’indomani – travestirono tre o quattro donne da galline e l’amore di Giuvannu era tra esse. Confezionarono loro le ali, il becco, il piumaggio, la coda e ordinarono loro di correre in circolo e di gridare coccodè…

Ad un certo momento, il più ubriaco di tutti invitò l’innamorata di Giuvannu a bere da un orcio di cognac. La ragazza in lacrime, umiliata, offesa si rifiutò ma l’altro, un gigante alto due metri, insistette. Le bloccò il capo con il braccio sinistro e con il suo destro possente le spinse l’orlo dell’orcio in bocca tra le sghignazzate degli altri aguzzini ubriachi, comprese un paio di donne. Ma la ragazza urlando continuava a rifiutare e in un accesso d’ira gli morse un polso.

L’assassino urlò di dolore, poi la stordì con un pugno e la irrorò di cognac vuotandole addosso l’intero recipiente. Infine, con un accendino le accese la coda di paglia e l’amore di Giuvannu, il suo sogno, il suo camino tra gli ulivi, la sua alcova di foglie di granoturco, la sua primavera di primule e di ciclamini rossi, i suoi marmocchi di luce, divennero una torcia umana che gridò per qualche secondo al cielo il suo dolore prima di spirare tra i tormenti.”

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