La lotta al cancro la racconta Umberto Veronesi nel suo libro L’uomo con il camice bianco.
Nel 1944, studente diciottenne, venne arrestato durante una retata alla stazione di Milano e arruolato. Inviato nei pressi di Pistoia fu aggregato a una divisione tedesca.
Durante un attacco aereo saltò su una mina. Lo credevano un soldato tedesco, ai genitori di Umberto arrivò il telegramma della sua morte sul campo di battaglia. Trasferito a Porretta per la riabilitazione riuscì a fuggire per unirsi alla Resistenza.
«Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro».
In questo pezzo per Vita e Salute WEB, Aureliano Stingi di Alterthink, per la serie “La Grande C”, disponibile su Spotify, intervista Maurizio Scaltriti, VP Translational Medicine, Early Oncology, AstraZeneca. In passato Direttore Associato del Translational Science presso il Memorial Sloan Kettering CAncer Center. Un ricercatore, impegnato a combattere contro lo stesso nemico del compianto Veronesi.
- Come si studia il cancro e con quali modelli?
- Cos’è la ricerca di base e che cosa quella traslazionale?
- Cosa sono gli studi clinici?
Per ordine, una domanda alla volta:
Ricerca di base
Cosa intendi per ricerca di base?
«La ricerca di base è quella ricerca non propriamente applicabile alla clinica nel breve e medio termine.
Le cellule tumorali hanno dei processi biochimici genetici “scardinati”; quindi, ogni processo è molto complesso, con tante variabili. La scienza di base tenta di scoprire come funzionino questi processi più intrinseci della cellula e come possano essere sfruttati dai ricercatori traslazionali nell’uso di farmaci o altro.
La scienza di base non risponde ai processi di biologia molecolare e di biochimica, che servono per scoprire processi biochimici nuovi oppure conosciuti in un altro ambito che poi possono costituire una giustificazione per successive ricerche. La ricerca di base non dà normalmente luogo, tranne eccezioni, allo sviluppo di un farmaco».
Spesso, ricerche e risultati che avvengono in ambito di ricerca di base, vengono presi dai media, rilanciati e automaticamente estrapolati in ambito clinico. Un esempio classico: un determinato composto, usato per una certa attività antitumorale sulle cellule o sui topi ha avuto un esito particolare.
Il giornalista non addetto ai lavori può arrivare a dedurre che quel meccanismo sia anche valido se adottato per la cura degli esseri umani…
Quanto ti sei dovuto scontrare con questo tipo di errori nella tua carriera?
«È successo anche per articoli e interviste che ho concesso direttamente e mi riguardano. Per questo, ogni volta che si pubblica qualcosa con la mia firma pretendo di leggere il testo.
È vero, si trovano divulgati articoli che raccontano della scoperta della cura x o y. Poi si scopre che la notizia è fondata su un’ottima ricerca di base magari effettuata su due topi transgenici e tra linee cellulari particolari.
Ricerca che potrebbe anche essere molto promettente ma, fino a quando il ricercatore traslazionale non pianifica la possibilità di un’applicazione farmacologica e finché la scienza clinica non dichiara che la cura può essere applicata in quanto efficace, bisogna rimanere molto prudenti.
Capisco bene che una comunicazione rispettosa di queste tappe sia meno efficace rispetto allo scoop, ma con le notizie in prima pagina non si cura il cancro di nessuno».
Il nostro sforzo di divulgazione ha come obiettivo quello di comunicare la complessità della malattia. Anche i non addetti ai lavori capiscono perfettamente che dalla ricerca di base alla clinica e poi dalla clinica alla pratica, quindi agli ospedali e alle farmacie, passano non solo molti anni ma anche tantissimi sforzi e altrettante delusioni.
Dove colpire
Come si capisce dove colpire una cellula tumorale?
«È come andare in guerra, devi capire le mosse del nemico per poterle prevenire o per cercare di combatterlo. Prima di tutto, è necessario capire perché una cellula diventi tumorale e questa è una conditio sine-qua-non alla quale non si può rinunciare. Si devono studiare quali possono essere i suoi talloni d’Achille.
Come si sviluppa, quali sono i processi genetici e biochimici alla base della trasformazione neoplastica. La cellula diventa tumorale per problemi di genomica o epigenomica, il tumore è una malattia del DNA, la stragrande maggioranza dei casi di cancro si sviluppano per mutazioni e alterazioni genomiche o della cromatina (epigenomiche), che magari non sono proprio i geni propriamente detti ma la regolazione dell’espressione genica.
Ogni volta che c’è una disregolazione di una proteina, di una mutazione o di una espressione genica, si scardinano quei processi normali e fisiologici della cellula, molto complessi, grazie ai quali la cellula stessa fa quel che deve fare nel fegato, nel cervello, nel muscolo, ecc.
Questi equilibri si scardinano e la cellula perde le inibizioni naturali a proliferare, a invadere i tessuti circostanti e in casi più gravi a produrre metastasi. Si calcoli che il 90% delle morti per cancro sono dovute a malattie metastatiche.
Capendo quali sono le vulnerabilità genetiche e quindi anche biochimiche dei tumori si riesce poi a fare ipotesi del tipo: se inibisco questa proteina mutata, se inibisco questo processo cellulare, se faccio questa cosa riesco a fermare le cellule tumorali?
Allora, per capirci, la sfida non è tanto riuscire a trovare un farmaco unico, ma la strategia per inibire le cellule tumorali. Il problema però è riuscire a inibire solo quelle e non le altre non tumorali.
L’antitumorale deve agire soprattutto sulle cellule tumorali, quindi la specificità di un farmaco o di una strategia è molto importante perché altrimenti si sviluppa una tossicità. C’è una finestra terapeutica nella quale agire: quello spazio tra dose tossica nel tumore e dose tossica nel paziente.
Tutto sta nel capire quali siano quelle vulnerabilità delle cellule tumorali e come farlo, partendo dal sequenziamento genetico dei tumori, all’analisi proteomica degli stessi. In questo momento disponiamo di un arsenale di possibilità per analizzare i tumori, possiamo arrivare alla single cells granularity per studiare la differenza della eterogeneità tumorale cellula per cellula.
Sono strumenti costosi, non alla portata di tutti, però saranno sempre più diffusi e sempre più impiegati in laboratorio e spero anche nella ricerca clinica applicata ai pazienti».
Fasi 1-2-3
Dalla malattia all’uomo e viceversa. Il percorso ambivalente lo si nota nell’ambito della ricerca perché passiamo da una ricerca di base che è totalmente incentrata sul tumore, sui suoi meccanismi e poi ci si sposta in una ricerca traslazionale.
Qui si iniziano a usare dei modelli più complessi come ad esempio gli animali, le cellule animali, per poi arrivare alla fase clinica in cui l’attenzione torna sull’uomo.
Ci parli della fase clinica della ricerca sul cancro?
«Dal momento in cui nasce l’ipotesi che una certa molecola possa essere efficace per un certo tipo di tumore a quando questa diventa disponibile a tutti, alla clinica, passano dai 10 ai 15 anni.
Perché tanto tempo?
Serve una dose massiccia di studio a livello biochimico sulle cellule tumorali e sugli animali. Nel momento in cui si decide di testare questa molecola sull’uomo bisogna fare degli studi di tossicità molto rigorosi, dapprima sugli animali:
- quanto il farmaco rimane in circolo
- per quanto tempo.
Vanno tenute in considerazione le variabili farmacodinamiche, ossia come fare perché il farmaco vada effettivamente dove deve andare e agisca come deve? Tutte queste operazioni richiedono almeno un anno.
Una volta passati questi test, la molecola può essere sperimentata a livello clinico e si inizia con la Fase 1, sull’uomo, con una dose ridotta che punti a crescere nel corso del tempo.
Alle prime 3 persone si fornisce una dose bassissima della molecola; se la tossicità non si palesa, se ne scelgono altre 3 con una dose maggiore fino alla DLT (Dose Limiting Toxicities).
Fase 1
Raggiunto l’apice si sceglie di impiegare una dose minore rispetto a quella limite già testata, per allargare il test alla vera e propria Fase 1, nella quale la molecola viene somministrata a un numero di pazienti più elevato e per notare la sua efficacia dal punto di vista antitumorale.
In questa Fase il farmaco viene somministrato a pazienti con tumori differenti per testare eventuali sorprese. Succede che quella molecola pensata per una patologia mirata possa avere effetti benefici, magari, anche su altri tipi di tumore.
È mai successo che si sia trovata una cura che non si cercava?
Sì, è successo.
Fase 2
Terminata la Fase 1, nella quale si è stabilita la dose non tossica, comincia la Fase 2. Si allarga la platea numerica (200-300 pazienti) e si testa:
- se è veramente efficace.
- come fare a sviluppare dei marcatori di efficacia per studiarne i meccanismi di resistenza e pensare a eventuali combinazioni. A volte il farmaco risponde benissimo alla Fase 1 e si salta direttamente alla Fase 3 per risparmiare tempo.
Fase 3
Alla Fase 3 partecipano 500 e più pazienti e si matura la prova che servirà alle agenzie governative per rilasciare o meno la licenza per la commercializzazione e la somministrazione del farmaco.Alcuni farmaci particolarmente efficaci sono stati approvati direttamente dalla Fase 2».
Quanto tempo passa?
«10-15 anni come detto, a parte alcune eccezioni».
Quanto costa
Perché passano in media 10/15 anni prima che un farmaco arrivi sul mercato? Qual è il costo di tutta questa operazione?
«Per sviluppare una molecola c’è un tutto un team di chimici, biochimici e biofisici che lavora per anni al raggiungimento dello scopo. Per far sì che la molecola arrivi a essere provata clinicamente sono necessari anni che vanno moltiplicati per le centinaia, le migliaia di professionisti e le loro competenze relative che si spendono in quella stessa direzione.
A questo vanno aggiunti gli investimenti tecnologici e strutturali che sono molto rilevanti. Inoltre, occorre dire che su 10 progetti sui quali si lavora uno o forse due saranno magari autorizzati dalle agenzie del farmaco. E poi ci sono i trial: Fase 1-2-3 che costano moltissimo.
Costo totale, tirando una riga?
Decine di milioni di dollari, centinaia di milioni di dollari. A partecipare ai trial, lo voglio dire in conclusione, sono sempre volontari, non obbligati in alcun modo. Non sono sempre pazienti all’ultima spiaggia, ma anche molti individui che fanno una scelta precisa, che si fidano della scienza e affidano la loro esperienza in funzione del bene altrui. Senza di loro il progresso in questa guerra non sarebbe possibile».